domenica 20 settembre 2015

LE RELIGIONI DANNO FORMA SIMBOLICA ALLO STATO DI NECESSITA'

Ancora un bel brano, pienamente condivisibile,  dal libro di Levi della Torre
LE RELIGIONI DANNO FORMA SIMBOLICA ALLO STATO DI NECESSITA'
Stefano Levi della Torre: “Laicità, grazie a Dio”
pag 58

Così in religioni che vantano d'essere nate dall'assoluta novità di una rivelazione non sono in realtà un fatto primario. Al pari di ogni fenomeno culturale, sono derivazioni elaborate da pulsioni più originarie ed elementari: la paura, il desiderio, il bisogno, l'attesa e la speranza. Le religioni danno forma simbolica allo stato di necessità. Al pari dell'impulso a conoscere, la ricerca religiosa di senso nasce dall'urgenza di dare ordine e spiegazione alla percezione caotica del mondo e del tempo, di sedare l'ansia per l'incomprensibile e lo sconosciuto, conferendo a essi un volto, un nome, parole e figure di ritmo rituale. La violenza o l'amore che le religioni predicano non sono una loro creazione; in primo luogo è l'inverso, esse danno giustificazione retorica alla violenza o all'amore che in realtà le precedono e sussistono indipendentemente. Le religioni non producono la violenza o l'amore, ma li riproducono e li fomentano. Così è per l'organizzazione sociale e politica: la religione non produce la società, ma la riproduce e le dà una figurazione. Le corrispondenze tra le concezioni religiose e le concezioni della società e dello Stato nascono da un'esigenza comune: quella di giustificare gli statuti sociali e la gerarchia dei poteri, la loro permanenza o trasformazione, di rappresentare i rapporti interni ed esterni a una collettività i suoi rapporti con il mondo, di narrare l'origine e il destino di una società nel tempo.

E il relativismo libertario tollerante diventa l'alleato dell'altrui ortodossie intolleranti

E il relativismo libertario tollerante diventa l'alleato dell'altrui ortodossie intolleranti
Ci sono molti spunti interessanti e profonde riflessioni in questo breve ma denso libro di Levi della Torre. Trovo questo brano che trascrivo (un po' lungo, contrariamente ai miei post di solito brevi e sintetici) particolarmente interessante ed utile perchè sento che mi mette in discussione e mette "in salutare crisi" il mio essere laico, tollerante, relativista e multiculturalista. E mettersi in discussione è sempre utile. Buona lettura

il brano:
Stefano Levi Della Torre, Laicita, grazie a Dio”. 
pagina 87 
paradossi del relativismo
C'è d'altra parte un relativismo laico così coerente e così congegnato da finire tra le braccia delle ortodossie più retrive. Quando un qualche fatto discutibile se non grave pare riferito a consuetudini vigenti in un qualche gruppo umano, questo relativismo propone di astenersi dal giudizio con la formula "è la loro cultura "; mi spiego più diffusamente.

Si è fatta strada in questi anni, tra alcuni filosofi ma anche nel senso comune un relativismo coerente o meglio estremo, secondo cui il concetto stesso della verità è autoritario, ed è etico nonchè realistico considerare che molte sono le verità, ciascuno ha la sua (o le sue) o magari ciascun gruppo umano e ciascuna cultura. Ne risulta che l'unica verità universale ammissibile, o, paradossalmente, l'unica verità assoluta, è il relativismo stesso. Secondo una simile logica, tra le tesi tolemaiche del cardinale Bellarmino e di Urbano VIII, e quelli di Galileo, dagli stessi condannato, non avrebbe senso prendere partito, poiché anche la verifica sperimentale e la prova scientifica hanno vigenza solo in relazione a determinati criteri e paradigmi, ai sistemi di riferimento che si scelgono e non ad altri; comunque i loro risultati non sono mai definiti come la storia della scienza dimostra. Ne consegue che la verità e ciò in cui si crede. Ora, questo relativismo è una deriva oltranzista della nobile idea della tolleranza, secondo cui ciascuno ha il diritto di pensarla come crede; idea che però giunge, per ossessione di coerenza, a non far più distinzione tra dimostrazione (logica e sperimentale) e credenza. In polemica con la prepotenza prevaricatrice delle verità assolute della teologia o dell'ideologia, ma anche delle verità dimostrate dalla scienza, questo relativismo si presenta come estrema conseguenza della laicità, e tuttavia è la posizione più vicina al criterio della fede: la verità e ciò in cui si crede, e un atto soggettivo di fede. Non è un credere a ciò che si dimostra vero, ma è uno proclamare la verità ciò in cui si afferma così dimostra di credere. In quanto consanguineo della fede, anzi sua caricatura laica, questo relativismo, questa apoteosi del relativo, ruotando su se stessa, finisce per essere un'apoteosi dell'assoluto: poiché ogni credere solo vanamente cercherebbe verifiche obiettive esterne a sé, essendo in realtà autoriferito, spiegazione do sé con se stesso, in un giro vizioso tautologico. Ciascuno ha le proprie convinzioni e nessuno ha il diritto volo autorità di interferire in esse: dunque la verità di ciascuno è assoluta, la sua interpretazione dei fatti, il suo vissuto sono assoluti, senza contraddittorio. Questa impostazione, che ha la pretesa di rappresentare la più rigorosa consequenzialità epistemologica, decostruzionistica e libertaria, finisce per incatenare ciascuno alle sue credenze, per distruggere il linguaggio, luogo principale della confrontabilità delle cose e delle valutazioni. E un altro paradosso consegue: la parentela strutturale tra questo relativismo il fondamentalismo,: poiché se il nocciolo del fondamentalismo sta nel ritenere che la propria interpretazione dei testi è l'unica possibile e valida, questo relativismo, nel corso stesso della sua consequenzialità, si rovescia nel suo opposto, giungendo alla conclusione che non una, ma ogni interpretazione è assolutamente valida per se stessa indipendentemente da ogni altro: che ogni interpretazione non solo è legittima ma autonoma e assoluta. Sul piano politico, le conseguenze di queste impostazioni sono ben visibili: il sacrosanto rispetto delle altrui culture, estremizzato, si traduce nel dovere morale ed epistemologico di non intervenire interferire in esse, di sospendere ogni giudizio intorno ad esse per non ledere il diritto assoluto alla differenza. Ma nei rapporti tra gruppi umani le differenze di mentalità, di costumi, di cultura, di religione si rappresentano in prima istanza attraverso le identità più riconoscibili e canoniche: le mentalità più tradizionali, le forme culturali più caratteristiche o persino più folkloristiche, gli stereotipi diffusi radicati all'interno di ciascun gruppo, le forme religiose più ufficiali e codificate. Così, il rispetto delle altrui culture si riduce al rispetto dell'altrui ortodossie; e ciò a scapito delle differenze e libertà individuali, e delle posizioni critiche interne alla comunità altra. E il relativismo libertario tollerante diventa l'alleato dell'altrui ortodossie intolleranti

venerdì 18 settembre 2015

Tre righe in cronaca ma ... è da questi particolari che si giudica un giocatore

Tre righe in cronaca ma ... è da questi particolari che si giudica un giocatore

Tre righe, in fondo alla pagina sportiva del Corriere, quasi un riempitivo in un articolo che tratta della terza maglia dell’Inter.
Il giocatore dell'Inter Icardi ha preso una multa per aver parcheggiato, impegnato nello shopping, la sua costosa auto in un parcheggio riservato ai disabili in centro a Milano. Fine della notizia.

“un giocatore lo vedi dal coraggio
dall'altruismo e dalla fantasia”
http://www.airdave.it/f/francesco_de_gregori/canzoni/testo_la_leva_calcistica_della_classe_68.htm#ixzz3m5g3WAff

Quante volte cantato ( o pensato, io non canto) questa canzone. Non l’ho mai intesa al solo campo da calcio

Ho tifato Inter da sempre con disincantata passione, tanto nel ventennio in cui non ha praticamente vinto nulla, quanto nel breve periodo in cui in qualche modo ha vinto ripetutamente non solo sul campo.
Non so cosa farmene di un giocatore che per educazione, per condizione economica, per condizionamento sociale, pensa di poter fare un atto simile. É da questi particolari che si giudica un giocatore

Non vorrei avere nulla da spartire con una persona simile, neanche la maglia di una squadra, io per passione, lui (giustamente) per un compenso economico.

domenica 13 settembre 2015

LO STOLTO LETTORE: RIFLESSIONE SULL'ESSERE LAICI ED ATEI IN SALUTE

LO STOLTO LETTORE: RIFLESSIONE SULL'ESSERE LAICI ED ATEI IN SALUTE
UN GIOBBE ATEO
riflessione su LAICITA', GRAZIE A DIO di Stefano Levi della Torre

Nel suo interessante e denso saggio sulla laicità, Stefano Levi della Torre si dilunga sulla vicenda di Giobbe, giusto che sopporta con rassegnazione le sventure che subisce, perchè sia messa alla prova la sua fede in Dio, senza mai bestemmiare il nome di Dio stesso o perdere la sua fiducia in lui.

E' un esempio che viene usato nelle discussioni sulla teodicea. Però, senza voler essere blasfemo, a me fa venire in mente quella facezia, che si incontra in diverse narrazioni, di colui che è ateo convinto finchè l'aereo su cui viaggia non comincia a precipitare.

Voglio dire che la consuetudine è l'immagine del fedele che, mediamente retto nel corso della sua vita, è messo alla prova da una malattia inesorabile, piuttosto che del bimbo innocente stroncato all'inizio della sua vita.

Ma la mia esperienza, limitata certo e forse poco significativa, è quella di vedere persone che, non religiose se non proprio atee, acquisita la consapevolezza di precipitare verso la fine della propria vita, spaventate da questo esito si aggrappano verso una speranza di riscatto o di restituzione di felicità dopo la sofferenza senza soluzione in un momento post mortem.

E mi chiedo: io come mi comporterò? E' facile forse essere laico e ateo in salute e senza eccessivi problemi. Ma se il mio areo cominciasse a precipitare, la paura avrebbe il sopravvento sulla mia consapevolezza dell'inesistenza di qualsiasi divinità e sul fatto che un nel momento in cui il mio cuore cessasse di battere, tutto è finito?

Se io Giobbe ateo cominciassi a subire, per sventura, per caso o anche per colpa, disgrazie che minassero la mia serenità, saprei essere razionalmente consapevole che queste sono una delle varie possibilità che gli umani incontrano nel loro cammino, essendo lo scorrere del tempo e il percorso della storia assolutamente indifferente alla felicità o alla infelicità di ogni uomo (ed essendo probabilmente ininfluente questa alla evoluzione dell'universo) oppure per paura comincerei a “scommettere” su qualche possibilità di avere una seconda possibilità paradisiaca?


Ecco il testo di Levi della Torre.


Nel libro di Giobbe, le responsabilità divine nel bene e nel male sono messe in scena fin dall'inizio, nella scommessa con il Satàn, a cui il Signore affida “l'esperimento umano” su un giusto, per verificare in “corpore vili” quanto la creatura possa resistere nelle sue convinzioni spirituali sotto la pressione crescente della sorte, fino all'estremo, fino alla perdita di ogni speranza, incarnata nella propria discendenza e nel proprio corpo.
...
Potremmo dire che quello che Dio e il Satàn vogliono sperimentare in Giobbe è quanto la coscienza umana sia condizionata dalle circostanze e dal suo stato sociale e fisico, se l'essere umano risulti devoto e benevolo nel momento della fortuna, e cambi parere e convinzioni nel momento della rovina o in che misura invece la sua coscienza sappia essere autonoma dal mutare delle condizioni: fino a che punto, insomma, funzioni il libero arbitrio della creatura. È un esperimento sul libero arbitrio umano. Ma al tempo stesso un'affermazione del libero arbitrio divino, libero dalle definizioni in cui Lo vorrebbe catturare la teologia.

sabato 5 settembre 2015

IL LETTORE STOLTO: UN PERSONAGGIO CHE CORRISPONDA A UN'IDEA POSITIVA DI NOI STESSI

IL LETTORE STOLTO: UN PERSONAGGIO CHE CORRISPONDA A UN'IDEA POSITIVA DI NOI STESSI
Ieri sera ho finito il libro LA REGOLA DELL'EQUILIBRIO di Gianrico Carofiglio.

La mia valutazione, palesemente più superficiale della critica non favorevole della mia amica, è piuttosto positiva. Ho letto il libro volentieri, è stato facile individuare l'esito, oserei dire dalle prime battute, ma non per questo il plot è risultato scontato in modo annoiante. Certo, Carofiglio, perlomeno in questo libro, sembra non volere (o non sapere) gestire più di pochi personaggi, e infatti molti sono complementari e abbozzati (oppure relegati in ruoli fin troppo e irrealisticamente secondari), mentre altri, vedi Annapaola, sembrano un po' troppo costruiti. Però sono tutti “simpatici”, nel senso che hanno la loro funzione per far scorrere il “giallo” fino in fondo.

Ho trovato bellissimo il cameo della professoressa di letteratura incontrata di notte in libreria, a mio avviso un omaggio a una amica di Carofiglio, introdotto e concluso con tenera simpatia.

Mi piace lo stile del protagonista che ci racconta la sua storia, riflessioni argute ed autoironiche comprese, mi ricorda certi film nei quali possiamo anche sentire i pensieri del protagonista che si guarda assieme a noi che lo guardiamo. Ho l'impressione che serva a Carofiglio per introdurre le sue riflessione etiche e morali che, forse sono di bocca buona, mi sembrano mai banali. Tutto il libro è pervaso da senso etico e da una volontà di guardarsi con ironico disincanto, come a voler dire che da vicino siamo tutti un po' miserelli, ma che se ci accettiamo, nelle nostre piccolezze, e senza autoassolverci sappiamo guardare con ironia i nostri faticosi sforzi per migliorarci, possiamo continuare a convivere con noi stessi.
Questa è la mia riflessione, magari Carofiglio voleva dire tutt'altro e io continuo a condire tutto con aria fritta

Però vorrei riportare due paragrafi che mi sono piaciuti molto e nei quali mi sono riconosciuto molto

Nel primo Annapaola, l'investigatrice verso cui Guerrieri è attratto gli dice:

uno di noi, negli anni, crea un personaggio disse stesso. Uno con cui identificarci, che corrisponde a un'idea positiva di noi stessi, che racchiude le qualità che ci piace pensare di avere. Il tuo personaggio, quello che ti sei creato con cui ti identifichi, fra le varie caratteristiche, ne ha uno che potrebbe essere descritta così:
e continua con una descrizione legata al personaggio che qui non interessa. La parte importante, quella nella quale ho immaginato Annapaola parlasse a me, è quella che ho trascritto e che ho trovato precisa e vera


Un'altra parte nella quale mi sono sentito coinvolto e messo in discussione è questa
Tutto quello che stai dicendo solo un modo per sollevare cortine fumogene, per sfuggire alla responsabilità di prendere una decisione non ovvio. Un modo di mentire a te stesso. Dici che ci sono le regole deontologiche, la tutela del cliente, gli obblighi dell'avvocato per sottrarsi alla responsabilità che ti deriva dall'aver saputo certe cose. Non è che ti nascondi dietro i presunti doveri professionali solo per evitare seccature, solo per evitare di scegliere? Solo per sottrarsi alla fatica di fare delle distinzioni?
Come era la battuta di quel film bellissimo di Renoir, la regola del gioco? " Ho voglia di sparire in un buco... Di non vedere più niente, di non dover più distinguere ciò che è bene e ciò che è male ". È quello che vuoi fare tu? Sparire in un buco per non dover distinguere fra bene e male? Come ti sentirai fra 10 anni rispetto a questo? Cosa vorreste aver fatto, fra 10 anni?


La difficoltà nel leggere la realtà odierna a volte mi fa sentire come il personaggio di Renoir.

Quando un autore sa mettere nella sua storia frasi come questa, beh, allora il suo libro merita di essere letto.

venerdì 4 settembre 2015

IL LETTORE STOLTO SORRIDE ALLO SPECCHIO

Mi dedico questo simpaticissimo paragrafo che Carofiglio scrive nel libro che sto leggendo: LA REGOLA DELL'EQUILIBRIO ( che ha ricevuto una recensione non positiva da parte di una cara amica, il cui parere, in questo settore, è da tener da conto).
Non entro ora nel merito del valore complessivo del libro, dal quale però già ho tratto due stralci che mi hanno colpito.
Se il primo mi rappresenta in uno degli incubi a mente sveglia tra i miei più ricorrenti, questo mi consente di iniziare una riflessione sull'importanza dello specchio e del sorriso.
Ecco il brano.
la disposofobia o accumulo patologico o accaparramento compulsivo è un disturbo mentale caratterizzato dal bisogno ossessivo di acquisire, senza utilizzare né buttare via, una notevole quantità di beni, anche se inutili, pericolosi, o insalubri. L'accaparramento compulsivo provoca impedimenti e danni significativi ad attività essenziali quali muoversi, cucinare, fare le pulizie, lavarsi e dormire. In effetti almeno fare le pulizie e muoversi era diventato piuttosto complicato, a casa mia. La patologia è egosintonica, dicono gli esperti. Cioè non viene percepita come invalidante, anzi il soggetto trova 1000 giustificazioni per continuare il proprio racimolare compulsivo. Finché arrivano dei punti di non ritorno il malato percepisce come immenso e impossibile il lavoro necessario per riordinare e liberare lo spazio e si trova intrappolato tra il bisogno di trattenere la necessità di disfarsi di cose per sopravvivere.

http://www.disposofobia.org/
Vediamo alcuni aspetti essenziali che caratterizzano la Disposofobia. Sostanzialmente si tratta di un modello di comportamento caratterizzato dall’incapacità di eliminare alcunché dai propri spazi vitali (casa, auto, ufficio, ecc.) talvolta accompagnata dall’eccessiva acquisizione di oggetti per il loro carattere di “affare” o “scorta”. Si crea così uno sbilanciamento tra il materiale che “esce” (quasi nulla / nulla) e quello che “entra” perché acquistato o raccolto in giro (volantini, bustine di zucchero, giornali, vestiti, cibo, in alcuni casi animali).
http://www.treccani.it/enciclopedia/comportamento-egosintonico_(Dizionario-di-Medicina)/
egosintonico:egosintonico, comportamento Comportamento in cui si realizza compatibilità di idee e impulsi con l’Io o una sua parte

giovedì 3 settembre 2015

IL LETTORE STOLTO. TUTTI I PENSIERI INTELLIGENTI SONO GIA' STATI PENSATI

Ho preso in biblioteca e ho iniziato a leggere oggi questo smilzo librettino (si presenza smilzo di dimensione ma ho l'impressione, dalle prime pagine, che sia di un peso specifico notevolissimo) di STEFANO LEVI DELLA TORRE dall'intrigante titolo LAICITA', GRAZIE A DIO, frase che richiama quella famosa (che io pensavo fosse di Bunuel e che invece sembra sia di Bergson) che recita "SONO ATEO, GRAZIE A DIO" che io ripeto spesso, e spesso a vanvera come mi capita.

Vorrei proporre due stralci iniziali che mi fanno pregustare una lettura piacevolissima.
Il primo paragrafo che copio contiene la frase, di Goethe, che ho messo come titolo del post e che si completa con l'invito a tentare di ripensare i pensieri intelligenti, e LEVI DELLA TORRE spiega perchè. Mi ha colpito il suo argomentare, mi mette in discussione. Non che io abbia pensieri intelligenti, già pensati, piuttosto mi rendo conto, per una ricerca di coerenza a volte un po' donchisciottesca, di far fatica a ripensare i pensieri intelligenti con cui mi confronto, o mi scontro. Insomma, mi rendo conto di avere una certa rigidità di pensiero che non è esattamente laica.
Conclusione: che bello leggere, quanto aiuta nel mettersi in discussione e quindi nell'interrogarsi nel profondo. E come i pensieri intelligenti sono già stati pensati, le frasi intelligenti sono già state scritte, e mi limito a riproporle.

Nel suo breviario di massime e riflessioni Goethe scriveva che "tutti i pensieri intelligenti sono già stati pensati; occorre solo tentare di ripensarli". Se non ripensate, le convinzioni degradano in convenzioni, cambiano inavvertitamente di natura. Così può avvenire anche per le idee più brillanti e profonde; da rivelazioni che aprono nuovi orizzonti e dissipano pregiudizi, diventano fissazioni conservatrici, diventano esse stesse pregiudizio. Ugualmente avviene per le fedi: come i pani e i pesci, meglio siano fresche di giornata

Il secondo paragrafo invece mi conforta. Da ateo mi sento particolarmente interessato alle religioni e alla necessità che molti compagni di strada sul nostro pianeta sentono di avere di un Dio e una religione. LEVI DELLA TORRE mi sostiene in questo interesse, anzi dice che è un dovere per un laico conoscere le religioni per "litigare" (inteso in senso ironico, come confronto)

Per confrontarsi con la religione bisognerà pur saperne qualcosa, interrogarne i tesi e le argomentazioni. Se infatti, sul piano giuridico e istituzionale, ha senso il principio (laico) della reciproca non interferenza (libere chiese in libero Stato), sul piano del confronto delle idee e delle mentalità l'interferenza è invece doverosa. Non condivido la posizione di quei laici secondo i quali gli argomenti religiosi sono affari che non li riguardano. la religione non è solo un fatto privato, bensì collettivo e sociale, ed è su questo terreno che ci si confronta realisticamente con essa. In massima parte, laicità e religione si occupano in modo diverso delle stesse cose;: di come va il mondo e di come dovrebbe andare, della vita e della morte, della sofferenza e della speranza. Il conflitto tra laicità e religione non è tanto sugli argomenti quanto sul modo di argomentare, sui criteri di fondo circa il vero e il falso, circa il rapporto tra il sapere e il credere.

IL LETTORE STOLTO. PENSARE ALLA VITA QUANDO LA VITA SEMBRA ALLA FINE

Ho iniziato a leggere LA REGOLA DELL'EQUILIBRIO di Gianrico Carofiglio. So che, quando leggerà questa dichiarazione, un carissimo amico appassionato lettore di Carofiglio, gioirà. L'ho preso in biblioteca anche pensando a lui. Se a questo mio amico piace Carofiglio, vuol dire che merita. Ho già letto altri libri di questo autore e me li sono gustati. Non è quindi una novità. Però oggi ho trovato, nelle prime pagine questa frase (che fa dire al protagonista, l'avvocato Guido Guerrieri) che mi ha colpito e che ho trovato profonda, vera e ho sentito mia.

La regola dell'equilibrio di Gianrico Carofiglio
"Non lo so. Non riesco a definire il mio ricordo. È stato un giorno sospeso nel nulla. C'era la paura, prima di tutto. Erano come pulsazioni di paura. L'idea concreta che in breve, non in un futuro remoto e astratto, non esisterai più. Il mondo non esisterà più. Mi sono ricordato quello che disse un mio amico, Emilio, quando mi raccontò della malattia e della morte di sua moglie, aveva 34 anni. Pensi alle passeggiate che non hai fatto, a quando ti sei comportato da ragioniere con la moneta degli affetti. Non è solo la paura della morte, e che vorresti non aver sprecato il tuo tempo. Poi c'erano momenti di quiete perfetta. Come se mi fossi già abituato, come se avessi accettato il mio destino è potessi osservarlo con distacco. Una cosa che riguardava qualcun altro. E c'erano momenti in cui pensavo che non mi sarei dovuto arrendere, che avrei dovuto lottare, sconfiggere la malattia, qualunque fosse."

martedì 1 settembre 2015

Parlare con proprietà. Non bastano 500 parole.

Parlare con proprietà. Non bastano 500 parole.

Tra le letture del lunedì, un posto fisso viene occupato dalla lettura della DOMENICA del Sole 24 Ore. Un bellissimo inserto nel quale si trovano tanti ottimi suggerimenti per libri, articoli molto interessanti, divertenti e acuti.

Nel fascicolo di domenica 30 agosto ho trovato questo breve articolo di ROBERTO CASATI: Parlare con proprietà. Non bastano 500 parole.

Ho cercato sul sito del Sole 24 ore il link all’articolo per postarlo interamente, ma purtroppo non l’ho trovato.

Non posso riprodurlo tutto, mi limito a copiare il primo e l’ultimo paragrafo, tanto il senso è chiaro: “disporre di un buon lessico non è un lusso, offre un modo vantaggioso ed economico per esprimersi”. Conoscendo Casati per altri scritti, non evito il dubbio che ci sia un filo di sottile ironia in queste motivazioni, come dire utilizzare una attenuazione di valore (volevo usare una parola inglese, ma in questo caso sarebbe stata veramente fuori contesto) per sottintendere e farci intuire altre motivazioni e altri pregi dell’esprimersi con proprietà di linguaggio.

Ecco alcune righe
Provatevi a esprimere l'idea contenuta in una frase assai semplice come: “vorrei frullare questo mango”, senza usare le parole frullare e mango. Provateci davvero. (10 secondi di pausa… Fatto?) o provate a dire con parole vostre quello che sta scritto qui: l'orario dei treni è inaffidabile, o ancora, in un vertiginoso crescendo, l'inflazione erode le pensioni. Ripeto, provateci davvero. Magari mettete per iscritto quello che siete riusciti a scovare. (Ci ho provato anch'io: per esempio, ho scritto riduci in poltiglia il frutto tropicale giallo). Perché questo piccolo esperimento? Si pensa che parlar forbito sia un lusso; una cosa da intellettuali, o da perditempo: alla ricerca del vocabolo cesellato, del sinonimo inusitato, o peggio dell'effetto azzeccagarbugli. Parlassimo tutti come mangiamo, faremmo meno fatica a capirci e ad esprimerci. Ma è vero?
(...)
BENEDETTO VERTECCHI, che ha analizzato il corpus linguistico nei documenti degli studenti intorno ai 14 anni di età dal 1966 al 2006 sostiene che nel corso del tempo si nota un'evoluzione netta: a minor lessico, testi più lunghi. Se nel 1966 i testi erano di 100 parole, nel 2006, a parità di contenuto, ne contavano 120. Se non hai le parole per dirlo, devi inventarti una perifrasi. Il lessico povero ti fa assomigliare a chi non parla una lingua straniera e si trova costretto a fare dei giri di parole. Ti tocca di usare quello che hai. E dato che la perifrasi va generata sul momento, fai molta più fatica. E’ come se dovessi utilizzare un cacciavite come martello; magari alla fine il chiodo lo pianti, ma a che prezzo? La risposta migliore è dunque che disporre di buon lessico non è un lusso. Al contrario! Offre un modo vantaggioso ed economico di esprimersi, risparmiando sulle inevitabili e costose perifrasi cui deve dedicarsi chi un buon lessico non ha. Come abbiamo visto, non c'è bisogno di scomodare il vocabolario tecnico o accademico. Frullare una parola, ridurre in poltiglia ne contiene tre, e se non sai che cos'è la poltiglia?