giovedì 24 dicembre 2009

CINQUE DONNE PER IL 2009

L'anno sta finendo e uno dei giochi più usati, forse stupido forse utile a ricordare che la realtà esiste anche quando non è più nei titoli di testa dei media, è quello di fare le classifiche... uomo o donna dell'anno, il più... la più...
A me è venuto in mente di ripensare a 5 donne che mi hanno impressionato nel corso dell'anno, rendendomi conto il primo risultato cattivo di ogni classifica del genere è quello della esclusione. Ma propongo ugualmente questa "rosa", che se qualche amica/o vorrà potrà integrare con le sue scelte.
Io elenco:
Neda Soltani È morta il 20 giugno, alle 18.30, in Kargar Avenue a Teheran, filmata dai telefonini dei compagni di protesta. Ed è diventata il simbolo della rivoluzione verde. I sostenitori di Akhmadinejad hanno rimosso la sua pietra tombale. Ma il pellegrinaggio al suo sepolcro non si ferma.
Yoani Sanchez La 34enne blogger dell’Havana racconta, nonostante le minacce, le botte e i divieti del regime, la difficoltà di vivere a Cuba oggi. Aggirando da hacker le barriere on line imposte da Fidel
Rosy Bindi Basterebbe "Presidente, non sono una donna a sua disposizione". C'è tutto in questa frase. Averla conosciuta in una stupenda assemblea a Trezzo ha messo la ciliegina sulla torta. Grande.
Aung San Suu Kyi : avevamo pensato di dare il suo nome a una nostra seconda figlia, ma è nato un maschio che porta il nome del Mahatma, e questo figlio ha ormai 13 anni. E Suu Kyi, isolata e sola contro un esercito agguerrito e sostenuto dalla Cina non è stata ancora sconfitta. E fa paura ai generali iper armati che dissanguano la Birmania
Johanna Sigurdardottir Non la conoscevo, ma ho trovato la descrizione che trascrivo di seguito e la scelgo non tanto per i suoi meriti ma per la sua normale situazione personale: è lesbica e sposata. Normale ma non per la società Italiana! Leader socialista, lesbica felicemente sposata, dal primo febbraio guida l’Islanda. Non sono state le quote rosa a farla primo ministro, ma i conti in rosso: dopo la bancarotta l’Islanda sembrava non credere più a nulla. Ma a lei sì: in piena bufera registrava un gradimento del 70 per cento. Che resiste.

mercoledì 23 dicembre 2009

AUGURI DI UN FELICE ANNO NUOVO

E' un mondo di pene il nostro
anche se i fiori di ciliegio
lo rallegrano

Yotaro ISSA
Poesie

lunedì 14 dicembre 2009

PESSIME E REGRESSIVE SORTI

Se il Carroccio diventa una Lega nazionale
Repubblica — 13 dicembre 2009 pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA

IN QUESTI giorni concitati sembra che, in Italia, esista solo Berlusconi. Impegnato nella sua lotta quotidiana con quanti ce l' hanno con lui. Più o meno tutti, cioè. Persone e istituzioni. Magistrati e alte cariche dello Stato. E alleati che occupano alte cariche dello Stato, come il presidente della Camera Gianfranco Fini. Capo dell' opposizione di centrodestra. Anzi, dell' opposizione. Eppure, oggi più che mai, l' attore politico più importante della maggioranza è la Lega. Le guerre personali e di fazione che agitano il Pdle Berlusconi la rafforzano. D' altronde, il suo peso politico, negli ultimi anni, non ha smesso di crescere. Anzitutto, per motivi elettorali. Ha superato l' 8% dei voti validi alle politiche del 2008e il 10% alle europee del 2009. Tuttavia, nel 1996 - e anche nel 1992 - aveva ottenuto un risultato migliore. Ma allora correva da sola contro tutti. Oggi è al governo. I suoi elettori occupano circa un quarto dell' area di centrodestra, in Italia. Ma oltre il 40% nelle regioni del Nord (al di sopra del Po). Dove, alle elezioni politiche del 2008, si è imposta come primo partito in 800 comuni su circa 4000. Ma il suo peso politico è molto superiore a quello elettorale (come ha lamentato di recente Piero Ignazi sull' Espresso ). Perché, senza la Lega, per Berlusconi, le elezioni diventano un azzardo. Lo ha sperimentato nel 1996. Non ci proverà più. E per evitare tensioni, alle prossime elezioni cederà la presidenza di - almeno - una grande regione del Nord. La forza della Lega riflette, in modo simmetrico, le debolezze del principale partito di maggioranza. Il Pdl.Ei tormenti del suo leader, Silvio Berlusconi. Il Pdl non è ancora un partito. Appare, invece, una somma di elettorati e di gruppi dirigenti, senza un' effettiva identità condivisa. Fin qui, alle elezioni ha raccolto fra 35 e il 37% dei voti validi. Più o meno la somma dei risultati ottenuti dai partiti da cui origina. I quali, tuttavia, continuano a operare divisi, a livello locale. C' è poi il problema della leadership. Certo: Berlusconi è indiscutibile, ma Fini lo discute. Quasi ogni giorno. In fondo: logora il carisma del "capo assoluto". Così Berlusconi è costretto a legarsi sempre di più alla Lega. Compatta: in Parlamento e sul territorio, guida una maggioranza spesso incerta e divisa. Ne costituisce la bussola. Orientata a Nord. Come i ministri-chiave del governo. Leghisti e no. Tremonti e Maroni, anzitutto. Poi Brunetta, Sacconi, Gelmini, Zaia. Scajola. Lo stesso La Russa, politicamente, è milanese. Il Sud. La Sicilia, un tempo bacino elettorale di FI, oggi contesa da altri soggetti regionalisti, è rappresentata - soprattutto e anzitutto - dal ministro Alfano. Impegnatoa tempo pieno nella "guerra" controi magistrati. Accanto al suo leader. La Lega, dunque, garantisce un consenso essenziale al governo e al premier - in ogni occasione e in ogni materia. In cambio del sostegno alle politiche che le interessano maggiormente. A favore del Nord e in tema di sicurezza. Nel frattempo, sta ridimensionando la sua "eccezione", sul piano territoriale e sociale. Alle europee, ha colorato di verde le regioni rosse dell' Italia centrale. Dal punto di vista socio - anagrafico, continua ad attirare i piccoli imprenditori e i lavoratori dipendenti della piccola impresa privata. Ma, fra i suoi elettori, è cresciuta la presenza dei giovani. E, soprattutto, quella delle donne. Fino a 10 anni fa, era un partito maschio e maschilista. Oggi quasi metà del suo elettorato è composto da donne. Insomma, il suo elettore "medio" si è avvicinato alla "media sociale". Da cui si distingue per gli atteggiamenti: perché riassume - enfatizzate - le fobie del nostro tempo. Su queste paure - oltre che sulla radice territoriale- la Lega ha fondato la propria offerta politica, negli ultimi anni. E, al contempo, ha costruito l' identità politica della maggioranza di centrodestra. Più di quanto non abbia fatto lo stesso Berlusconi. Imprigionato in una sorta di autismo, che lo spinge a riproporre se stesso come mito ed esempio. Mito esemplare. L' italiano tipo. La Lega, invece, agita la società, ne ascolta il rumore. E lo amplifica con argomenti espliciti e un linguaggio violento. Con iniziative polemiche dall' intento simbolico ed educativo. È la Lega degli uomini spaventati, che raccoglie le paure e le moltiplica. Capta la xenofobia e la riproduce. È la Lega dei localismi, che intercetta lo spaesamento prodotto dalla globalizzazione. Dalla caduta del Muro e dei muri. Intercetta il distacco dallo Stato, dalle istituzioni, dalla Ue. E lo amplifica. È la Lega dei cattolici senza fede. Sorta nel vuoto prodotto dall' eclissi del sacro - per citare Sabino Acquaviva - e dalla secolarizzazione. Propone una nuova religione. Naturalmente secolarizzata. Senza Dio e senza chiesa. Sovente, contro la Chiesa. D' altra parte, nella sua base elettorale è maggioritaria la presenza dei cattolici non praticanti. Molti dei quali riducono la religione a una cornice del senso comune. Un sistema di valori e di credenze che usa la tradizione per "difendersi" dalla (post) modernità. Il paradosso è che la Lega, in questo modo, si distacca dal suo specifico territoriale. Non ambisce (solo) alla "corona longobarda", come ha suggerito Gad Lerner su Repubblica. Sta, invece, mutando in "Lega Nazionale". Non solo perché il suo elettorato ha superato i confini del Po. Non solo perché è il perno del governo nazionale. Ma perché, con le sue polemiche, le sue politiche, le sue parole sta affermando un' idea di "nazione" piuttosto precisa a un paese dall' identià incerta. Attraverso l' opposizione agli stranieri, agli immigrati, all' Islam. Il distacco fra noi e gli altri. La Lega: rivendica il tricolore e la croce, uniti per dividere. Dagli stranieri. Fa riferimento esplicito al nostro "carattere nazionale". Evoca una "nazione" di individui e di localismi, che chiedono protezione allo Stato, ma ne diffidano. Invocano la tradizione e i suoi principi. Ma vogliono essere liberi da ogni regola. Da ogni limite. Correre felici a 150 all' ora. E oltre. Una Lega veloce. Nazionale. Mentre Berlusconi corre dovunque. Ma, alla fine, è sempre lì. Gira intorno a se stesso. - ILVO DIAMANTI

venerdì 11 dicembre 2009

BARACK OBAMA - PREMIO NOBEL PER LA PACE

Dal sito del giornale la Repubblica, il testo pronunciato da Obama per l'accettazione del premio Nobel per la Pace
Vostra maestà, vostra altezza reale, illustri membri del Comitato norvegese per il premio Nobel, cittadini americani e cittadini del mondo intero:

ricevo questo onorificenza con profonda gratitudine e grande umiltà. È un premio che parla alle nostre aspirazioni più alte, che ci dice che, pur con tutta la crudeltà e le difficoltà del nostro mondo, non siamo unicamente prigionieri del fato. Quello che facciamo conta, e possiamo piegare la storia nel senso della giustizia.

Ma sarei negligente se sorvolassi sulle forti polemiche che ha suscitato vostra generosa decisione. In parte queste polemiche nascono dal fatto che io sono all'inizio, e non al termine, delle mie fatiche. A confronto di alcuni dei giganti della storia che hanno ricevuto questo premio - Schweitzer e King, Marshall e Mandela - i miei successi sono poca cosa. E poi ci sono gli uomini e le donne in tutto il mondo che vengono incarcerati e picchiati perché cercano giustizia, ci sono quelli che lavorano duramente nelle organizzazioni umanitarie per alleviare le sofferenze, ci sono quei milioni senza nome che con i loro atti silenziosi di coraggio e di compassione sono di ispirazione anche per il più cinico degli individui. Non posso contestare le ragioni di chi sostiene che questi uomini e queste donne - alcuni noti, altri sconosciuti a chiunque tranne che a quelli che ricevono il loro aiuto - meritano questo riconoscimento molto più di quanto non lo meriti io.

Ma forse il problema maggiore è che io sono il comandante in capo di una nazione impegnata in due guerre. Una di queste guerre sta lentamente esaurendosi. L'altra è un conflitto che l'America non ha cercato, un conflitto a cui prendono parte insieme a noi altri quarantatré Paesi, compresa la Norvegia, nel tentativo di difendere noi stessi e tutte le nazioni da ulteriori attacchi.

Ciò non toglie però che siamo in guerra e che io sono responsabile del dispiegamento sul fronte, in una terra lontana, di migliaia di giovani americani. Alcuni di loro uccideranno. Alcuni saranno uccisi. Per questo vengo qui con l'acuta consapevolezza di quale sia il costo di un conflitto armato, carico di difficili interrogativi sul rapporto fra guerra e pace e sui nostri sforzi per sostituire la prima con la seconda.

Non sono interrogativi nuovi. La guerra, in una forma o nell'altra, ha accompagnato l'uomo fin dalle origini. Agli albori della storia nessuno ne metteva in discussione la moralità: la guerra era semplicemente un fatto, come la siccità o la malattia; era il modo con cui le tribù e poi le civiltà cercavano di acquisire potere e risolvevano le loro divergenze.

Col tempo, mentre i codici giuridici cercavano di mettere sotto controllo la violenza all'interno dei gruppi, filosofi, uomini di chiesa e statisti cercavano di regolamentare la forza distruttiva della guerra. Emerse il concetto di "guerra giusta", che sottintendeva che la guerra è giustificata solo quando rispetta determinate condizioni: e cioè se viene mossa come ultima ratio o per autodifesa, se la forza usata è proporzionata e se, nei limiti del possibile, i civili vengono risparmiati dalle violenze.

Raramente nella storia si è vista una guerra che rispondesse al concetto di guerra giusta. La capacità degli esseri umani di inventare nuovi modi per ammazzarsi a vicenda si è rivelata inesauribile, al pari della nostra capacità di escludere dalla compassione chi ha un aspetto diverso o prega un Dio diverso. Le guerre fra eserciti hanno lasciato il posto alle guerre fra nazioni, guerre totali dove la distinzione fra combattenti e civili diventava meno netta. Nell'arco di trent'anni, per due volte questo continente è precipitato nel gorgo della carneficina. E benché sia difficile immaginare una causa più giusta della sconfitta del Terzo Reich e delle potenze dell'Asse, la seconda guerra mondiale fu un conflitto dove il numero complessivo delle vittime fra i civili superò quello dei soldati caduti.

Sulla scia di una distruzione tanto vasta, e con l'avvento dell'era nucleare, divenne chiaro sia ai vincitori che ai vinti che il mondo aveva bisogno di istituzioni che prevenissero un'altra guerra mondiale. E così, venticinque anni dopo la bocciatura da parte del Senato americano della Lega delle Nazioni (un'idea per la quale Woodrow Wilson vinse questo premio), l'America guidò il mondo alla costruzione di un'architettura per mantenere la pace: il piano Marshall e le Nazioni Unite, strumenti per regolare la guerra, trattati per difendere i diritti dell'uomo, impedire genocidi e limitare le armi più pericolose.

Sotto molti punti di vista, questi sforzi ebbero successo. Sì, sono state combattute guerre terribili e sono state commesse atrocità. Ma non c'è stata nessuna terza guerra mondiale. La guerra fredda si è conclusa con folle entusiaste che distruggevano un muro. I commerci hanno legato insieme gran parte del pianeta. Miliardi di individui sono usciti dalla povertà. Gli ideali di libertà, autodeterminazione, uguaglianza e Stato di diritto si sono fatti timidamente strada. Noi siamo gli eredi della forza d'animo e della lungimiranza delle generazioni passate, ed è un'eredità di cui il mio Paese va giustamente fiero.

Ora che è passato un decennio dall'inizio del nuovo secolo, questa vecchia architettura comincia a cedere sotto il peso di nuove minacce. Il mondo forse non trema più al pensiero di una guerra fra due superpotenze nucleari, ma la proliferazione delle armi nucleari rischia di rendere più probabile una catastrofe. Il terrorismo è un'arma tattica usata da molto tempo, ma la tecnologia moderna consente a pochi, piccoli uomini con una rabbia smisurata di assassinare un numero terrificante di innocenti.

Inoltre, le guerre fra nazioni sono sostituite sempre più dalle guerre all'interno delle nazioni. La resurrezione di conflitti etnici o settari, la crescita di movimenti secessionistici, guerriglie e Stati allo sbando intrappolano sempre di più i civili in un caos senza fine. Nelle guerre odierne vengono uccisi molti più civili che soldati: si gettano i semi di conflitti futuri, si devasta l'economia, si lacera la società civile, si accumulano i profughi e si lasciano segni indelebili sui bambini.

Non ho qui con me, oggi, una soluzione definitiva ai problemi della guerra. Quello che so è che per affrontare queste sfide servirà la stessa capacità di visione, lo stesso duro lavoro, la stessa perseveranza di quegli uomini e di quelle donne che alcuni decenni fa hanno agito con tanto coraggio. E servirà un ripensamento dei concetti della guerra giusta e degli imperativi di una pace giusta.

Dobbiamo partire della consapevolezza di una verità difficile da mandare giù: non riusciremo a sradicare il conflitto violento nel corso della nostra vita. Ci saranno occasioni in cui le nazioni, agendo individualmente o collettivamente, troveranno non solo necessario, ma moralmente giustificato l'uso della forza.

Dico questa cosa pensando a quello che disse anni fa, in questa stessa cerimonia, Martin Luther King: "La violenza non porta mai una pace permanente. Non risolve nessun problema della società, anzi ne crea di nuovi e più complicati". Io, che sono qui come conseguenza diretta dell'opera di una vita del reverendo King, sono la testimonianza vivente della forza morale della nonviolenza. Io so che non c'è nulla di debole, nulla di passivo, nulla di ingenuo, nelle idee e nella vita di Gandhi e di Martin Luther King.

Ma in quanto capo di Stato che ha giurato di proteggere e difendere la mia nazione non posso lasciarmi guidare solo dai loro esempi. Devo affrontare il mondo così com'è e non posso rimanere inerte di fronte alle minacce contro il popolo americano. Perché una cosa dev'essere chiara: il male nel mondo esiste. Un movimento nonviolento non avrebbe potuto fermare le armate di Hitler. I negoziati non potrebbero convincere i leader di al Qaeda a deporre le armi. Dire che a volte la forza è necessaria non è un'invocazione al cinismo, è un riconoscere la storia, le imperfezioni dell'uomo e i limiti della ragione.

Sollevo questo punto perché in molti Paesi oggi c'è una profonda ambivalenza sulle azioni militari, qualunque sia la causa che le muove. In certi casi, a questa ambivalenza si aggiunge una diffidenza istintiva nei confronti dell'America, l'unica superpotenza militare del pianeta.

Ma il mondo deve ricordarsi che non sono state solo le istituzioni internazionali, non sono stati solo i trattati e le dichiarazioni a portare stabilità al pianeta dopo la fine della seconda guerra mondiale. A prescindere dagli errori che abbiamo commesso, il dato di fatto puro e semplice è questo: gli Stati Uniti d'America hanno contribuito per più di sessant'anni a proteggere la sicurezza globale, con il sangue dei nostri cittadini e la forza delle nostre armi. Lo spirito di servizio e di sacrificio dei nostri uomini e donne in uniforme ha promosso la pace e la prosperità, dalla Germania alla Corea, e ha consentito alla democrazia di insediarsi in luoghi come i Balcani. Abbiamo sopportato questo fardello non perché cerchiamo di imporre la nostra volontà. Lo abbiamo fatto per interesse illuminato, perché cerchiamo un futuro migliore per i nostri figli e nipoti, e siamo convinti che la loro vita sarà migliore se altri figli e nipoti potranno vivere in libertà e prosperità.

Dunque sì, gli strumenti della guerra contribuiscono a preservare la pace. Ma questa verità deve coesistere con un'altra, e cioè che la guerra, per quanto giustificata possa essere, porterà sicuramente con sé tragedie umane. C'è gloria nel coraggio e nel sacrificio di un soldato, c'è l'espressione di una devozione per il proprio Paese, per la causa e per i commilitoni. Ma la guerra in sé non è mai gloriosa e non dobbiamo mai sbandierarla come tale.

La nostra sfida dunque consiste in parte nel riconciliare queste due verità apparentemente inconciliabili. La guerra a volte è necessaria e la guerra è, a un certo livello, espressione di sentimenti umani. Concretamente, dobbiamo indirizzare i nostri sforzi al compito che il presidente Kennedy invocava molto tempo fa. "Concentriamoci", diceva lui, "su una pace più pratica, più raggiungibile, basata non su un improvviso capovolgimento della natura umana, ma su una graduale evoluzione delle istituzioni umane".

Come dovrebbe essere questa evoluzione? Quali potrebbero essere queste misure pratiche?

Per cominciare, io sono convinto che tutte le nazioni, sia le nazioni forti che le nazioni deboli, devono aderire a dei parametri per regolare l'uso della forza. Io, come ogni capo di Stato, mi riservo il diritto di agire unilateralmente, se necessario, per difendere la mia nazione. Resto tuttavia convinto che aderire a delle regole sia qualcosa che dà maggior forza a chi lo fa e che isola - e indebolisce - chi non lo fa.

Il mondo si è stretto intorno all'America dopo gli attacchi dell'11 settembre e continua a sostenere i nostri sforzi in Afghanistan in virtù dell'orrore suscitato da quegli attacchi insensati e del principio riconosciuto dell'autodifesa. Allo stesso modo, il mondo ha riconosciuto la necessità di affrontare Saddam Hussein quando questi invase il Kuwait, un consenso che inviò un messaggio chiaro a tutti sul prezzo che devi pagare se vuoi compiere un'aggressione.

L'America non può pretendere che gli altri rispettino le regole della strada se lei si rifiuta di rispettarle. Perché quando non lo facciamo le nostre azioni appaiono arbitrarie e minano la legittimità di interventi futuri, non importa se giustificati o meno.

Questo diventa particolarmente importante quando lo scopo dell'azione militare va al di là dell'autodifesa o della difesa di una nazione da un aggressore. Tutti siamo alle prese sempre di più con difficili interrogativi su come impedire massacri di civili da parte del loro stesso governo, o su come fermare una guerra civile che rischia di risucchiare nelle violenze e nelle sofferenze un'intera regione.

Io sono convinto che l'uso della forza possa essere giustificato per ragioni umanitarie, come è stato nei Balcani o in altri posti segnati dalla guerra. Restare a guardare lacera la nostra coscienza e può condurre a interventi più costosi in un secondo momento. Ecco perché tutte le nazioni responsabili devono accettare il ruolo che possono giocare le forze armate, con un mandato chiaro, per il mantenimento della pace.

L'impegno dell'America nei confronti della sicurezza del mondo non verrà mai meno. Ma in un mondo dove le minacce sono più diffuse, e le missioni più complesse, l'America non può agire da sola. Questo vale per l'Afghanistan. Questo vale per Stati allo sbando come la Somalia, dove il terrorismo e la pirateria si accompagnano a fame e sofferenze. E purtroppo continuerà a valere ancora per anni a venire nelle regioni instabili.

I dirigenti e i soldati dei Paesi della Nato, e di altri Paesi amici e alleati, dimostrano questa verità attraverso la capacità e il coraggio di cui hanno dato prova in Afghanistan. Ma in molti Paesi c'è uno scollamento fra gli sforzi delle truppe e l'ambivalenza della cittadinanza. Io capisco i motivi dell'impopolarità della guerra. Ma so anche questo: pensare che la pace sia auspicabile di solito non basta per ottenere la pace. La pace richiede responsabilità. La pace comporta sacrificio. Ecco perché la Nato resta indispensabile. Ecco perché dobbiamo rafforzare le operazioni di peacekeeping dell'Onu e regionali, e non lasciare che siano pochi Paesi a farsene carico. Ecco perché rendiamo omaggio a chi ritorna a casa da operazioni di peacekeeping e addestramento, a Oslo e a Roma, a Ottawa e a Sydney, a Dacca e a Kigali: rendiamo omaggio a queste persone non come costruttori di guerra, ma come edificatori di pace.

Voglio dire un'ultima cosa sull'uso della forza. Anche quando prendiamo la difficile decisione di cominciare una guerra, dobbiamo pensare chiaramente a come questa guerra va combattuta. Il Comitato per il Nobel lo riconobbe assegnando il primo Nobel per la pace a Henry Dunant, il fondatore della Croce rossa e uno dei principali promotori delle Convenzioni di Ginevra.

Laddove è necessario usare la forza, abbiamo un interesse morale e strategico ad attenerci a determinate regole di comportamento. E anche quando affrontiamo un avversario crudele, che non rispetta nessuna regola, sono convinto che gli Stati Uniti debbano continuare a farsene portatori. È questo che ci rende diversi da coloro che combattiamo. È anche da qui che ricaviamo la nostra forza. È per questo che ho vietato la tortura. È per questo che ho ordinato la chiusura della prigione di Guantánamo. Ed è per questo che ho riaffermato l'impegno dell'America al rispetto delle Convenzioni di Ginevra. Perdiamo noi stessi quando scendiamo a compromessi proprio su quegli ideali che lottiamo per difendere. E onoriamo quegli ideali se li rispettiamo non soltanto quando è facile farlo, ma anche quando è difficile.

Ho parlato degli interrogativi che dobbiamo tenere presenti nel cuore e nella mente quando scegliamo di muovere guerra. Ma ora voglio soffermarmi sugli sforzi che possiamo fare per evitare scelte tanto tragiche, e voglio parlare di tre vie per costruire una pace giusta e duratura.

La prima riguarda l'approccio da adottare nei confronti di quelle nazioni che violano le regole e le leggi: sono convinto che dobbiamo sviluppare alternative alla violenza che siano sufficientemente efficaci da modificare i comportamenti, perché se vogliamo una pace duratura allora le parole della comunità internazionale devono avere un significato. Quei regimi che violano le regole devono essere chiamati a risponderne. Le sanzioni devono essere realmente incisive. All'intransigenza bisogna rispondere con un incremento della pressione, e una pressione di questo genere può esistere solo quando il mondo si presenta unito.

Un esempio urgente è lo sforzo per prevenire la diffusione delle armi nucleari e per arrivare a un mondo senza bombe atomiche. A metà del secolo scorso, le nazioni accettarono di essere vincolate da un trattato i cui termini sono chiari: tutti avranno accesso all'energia nucleare a scopi civili, chi non ha armi nucleari rinuncerà ad averle e chi ha armi nucleari si impegnerà a eliminarle. Io mi impegno perché questo trattato sia rispettato. È un punto centrale della mia politica estera e sto lavorando insieme al presidente russo Medvedev per ridurre gli arsenali nucleari in possesso dei nostri due Paesi.

Ma è dovere di tutti noi insistere perché nazioni come l'Iran e la Corea del Nord non giochino d'azzardo col sistema. Chi afferma di rispettare il diritto internazionale non può distogliere lo sguardo quando le sue regole vengono trasgredite apertamente. Chi ha a cuore la propria sicurezza non può ignorare il pericolo di una corsa agli armamenti in Medio Oriente o nell'Asia orientale. Chi cerca la pace non può restarsene inerte mentre altre nazioni si armano per una guerra nucleare.

Lo stesso principio si applica a chi viola il diritto internazionale per brutalizzare il proprio stesso popolo. Il genocidio nel Darfur, gli stupri sistematici nel Congo o la repressione in Birmania non possono rimanere senza conseguenze. E più saremo uniti, meno ci troveremo a dover scegliere fra l'intervento armato e la complicità nell'oppressione.

Questo mi conduce a un secondo punto: il tipo di pace che vogliamo. Perché la pace non è solamente l'assenza di conflitto aperto. Solo una pace giusta basata sui diritti intrinseci e sulla dignità di ogni individuo può essere veramente duratura.

Fu questa l'intuizione alla base della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, dopo la seconda guerra mondiale. Sulla scia delle devastazioni lasciate dal conflitto, quelle persone riconobbero che senza protezione dei diritti umani la pace è una promessa vuota.

Eppure troppo spesso queste parole vengono ignorate. In alcuni Paesi, il mancato rispetto dei diritti umani viene giustificato con la falsa tesi che questi princìpi sono figli dell'Occidente e che sono estranei alla cultura locale o a determinate fasi dello sviluppo di una nazione. E all'interno dell'America c'è da tempo tensione fra chi si autodefinisce realista e chi si autodefinisce idealista, una tensione che lascia intendere un'alternativa drastica fra il perseguimento meschino di interessi e una campagna infinita per imporre i nostri valori.

Io rifiuto questa scelta. Sono convinto che la pace è instabile laddove ai cittadini viene negato il diritto di parlare liberamente o di venerare il dio che preferiscono, di scegliere i propri leader o di riunirsi senza pericolo. Il risentimento represso si inasprisce, e la repressione dell'identità tribale o religiosa può produrre violenza. Noi sappiamo che è vero anche il contrario. Solo quando è diventata libera l'Europa ha finalmente trovato la pace. L'America non ha mai combattuto una guerra contro un Paese democratico e i nostri amici più stretti sono governi che proteggono i diritti dei loro cittadini. Negare le aspirazioni degli esseri umani non è nell'interesse dell'America (e nemmeno del mondo), per quanto cinica e ristretta possa essere la definizione di interesse che viene adottata.

Quindi, pur rispettando la cultura specifica e le tradizioni dei diversi Paesi, l'America spezzerà sempre una lancia in favore di quelle aspirazioni che sono universali. Daremo testimonianza della silenziosa dignità di riformatori come Aung San Suu Kyi, del coraggio degli abitanti dello Zimbabwe che vanno a votare nonostante i pestaggi, delle centinaia di migliaia di persone che hanno sfilato silenziosamente per le strade dell'Iran. È significativo che i leader di questi governi temano più le aspirazioni del loro stesso popolo che il potere di un'altra nazione. Ed è dovere di tutti i popoli liberi e di tutte le nazioni libere far capire a questi movimenti che la speranza e la storia sono dalla loro parte.

Voglio dire anche un'altra cosa: promuovere i diritti umani non può voler dire limitarsi all'esortazione. A volte questa va affiancata da una scrupolosa azione diplomatica. Lo so che trattare con regimi repressivi non consente l'appagante purezza dell'indignazione. Ma so anche che le sanzioni senza la sensibilizzazione - e la condanna senza dialogo - possono produrre un immobilismo disastroso. Nessun regime repressivo sceglierà di percorrere una strada nuova se non gli si lascerà una porta aperta.

Di fronte agli orrori della Rivoluzione Culturale, l'incontro di Nixon con Mao appare imperdonabile, eppure sicuramente quell'incontro ha contribuito a spingere la Cina lungo una strada che ha consentito a milioni di suoi cittadini di uscire dalla povertà e di entrare in contatto con le società aperte. Il dialogo di papa Giovanni Paolo II con il regime polacco ha creato spazi non solo per la Chiesa cattolica, ma anche per leader sindacali come Lech Walesa. Gli sforzi di Ronald Reagan per la riduzione degli armamenti e l'appoggio alla perestrojka non servirono solo a migliorare i rapporti con l'Unione Sovietica, ma diedero più forza ai dissidenti in tutta l'Europa orientale. Non c'è una formula unica. Dobbiamo fare del nostro meglio per bilanciare isolamento e dialogo, pressioni e incentivi, per favorire il progresso nel tempo dei diritti umani e della dignità.

In terzo luogo, una pace giusta non include solo i diritti civili e politici, deve includere la sicurezza economica e l'opportunità. Perché pace giusta non vuol dire solo libertà dalla paura, ma libertà dal bisogno.

È indubbiamente vero che raramente c'è sviluppo stabile senza sicurezza; è vero anche che la sicurezza non esiste laddove gli esseri umani non hanno accesso a cibo a sufficienza, o all'acqua pulita, o alle medicine di cui hanno bisogno per sopravvivere. Non esiste laddove i bambini non possono aspirare a un'istruzione decente o a un lavoro che permetta di mantenere una famiglia. L'assenza di speranza può corrodere una società dell'interno.

Ecco perché aiutare i contadini a dare da mangiare alla loro famiglia, o aiutare le nazioni a dare un'istruzione ai loro figli e a curare i malati, non è pura e semplice carità. Ecco anche perché il mondo deve unirsi per combattere i cambiamenti climatici. Quasi tutti gli scienziati concordano che se non faremo nulla ci troveremo a fare i conti con altre siccità, altre carestie e altre migrazioni di massa, che alimenteranno altri conflitti per decenni. Per questo non sono solo gli scienziati e gli ambientalisti a chiedere un'azione pronta e decisa, sono i vertici delle forze armate nel mio Paese e in altri Paesi, che capiscono che in palio c'è la sicurezza di tutti.

Accordi fra nazioni. Istituzioni forti. Difesa dei diritti umani. Investimenti nello sviluppo. Sono tutti ingredienti fondamentali per realizzare quell'evoluzione di cui parlava Kennedy. Ma io sono convinto che non avremo la volontà, o la perseveranza, di portare a termine questo compito senza qualcosa di più, e questo qualcosa è l'espansione costante della nostra immaginazione morale, la convinzione che c'è qualcosa di irriducibile che ci accomuna tutti.

Man mano che il mondo diventa più piccolo, dovrebbe diventare più facile per gli esseri umani riconoscere quanto siamo simili, capire che fondamentalmente vogliamo tutti le stesse cose, che speriamo tutti di avere la possibilità di vivere le nostre vite in modo più o meno felice e realizzato, per noi stessi e per le nostre famiglie.

Ma considerando il ritmo forsennato della globalizzazione e il livellamento culturale che porta la modernità, non c'è da sorprendersi che la gente abbia paura di perdere quello che più ama delle proprie identità specifiche, la razza, la tribù e, forse più forte di tutte, la religione. In alcune zone questa paura ha scatenato dei conflitti. A volte sembra addirittura che stiamo facendo dei passi indietro. Lo abbiamo visto in Medio Oriente, con il conflitto fra arabi ed ebrei che sembra inasprirsi. Lo abbiamo visto in nazioni lacerate dalle divisioni tribali.

La cosa più pericolosa è che lo vediamo nel modo in cui viene usata la religione per giustificare l'omicidio di innocenti da parte di chi distorce e svilisce la grande religione islamica, quelli che hanno attaccato il mio Paese dall'Afghanistan. Questi estremisti non sono i primi a uccidere nel nome di Dio: le atrocità delle Crociate sono ben note. Ma ci ricordano che nessuna guerra santa può essere una guerra giusta. Perché se credi veramente di stare eseguendo il volere divino, allora non hai necessità di mostrare alcun ritegno, non hai necessità di risparmiare la donna incinta, o il medico, o addirittura una persona della tua stessa fede. Una visione tanto distorta della religione non è solo incompatibile con il concetto di pace, ma anche con lo scopo della fede, perché l'unica regola fondamentale di ogni religione importante è fare agli altri quello che vorremmo che gli altri facessero a noi.

Rispettare questa legge d'amore è da sempre lo sforzo fondamentale della natura umana. Siamo fallibili. Commettiamo errori e cadiamo vittime delle tentazioni dell'orgoglio, del potere, e talvolta del male. Anche quelli fra noi che sono animati dalle migliori intenzioni possono non mettere riparo a un torto che viene commesso di fronte a loro.

Ma non abbiamo bisogno di pensare che la natura umana sia perfetta per continuare a credere che la condizione umana possa essere perfezionata. Non dobbiamo vivere in un mondo idealizzato per continuare a perseguire quegli ideali che lo renderanno un posto migliore. La nonviolenza praticata da uomini come Gandhi e come Masrtin Luther King forse non è pratica o non è possibile in tutte le circostanze, ma l'amore che loro hanno predicato, la loro fede nel progresso dell'umanità dev'essere sempre la stella polare che ci guida nel nostro viaggio.

Perché se perdiamo questa fede, se la liquidiamo come qualcosa di stupido o ingenuo, se la separiamo dalle decisioni che prendiamo sulla guerra e sulla pace, allora perdiamo quello che c'è di migliore nell'umanità. Perdiamo il nostro senso di possibilità. Perdiamo la nostra bussola morale.

Come hanno fatto altre generazioni prima di noi, dobbiamo rifiutare quel futuro. Come disse Martin Luther King in questa stessa occasione molti anni fa, "io rifiuto di accettare la disperazione come risposta finale alle ambiguità della storia. Rifiuto di accettare l'idea che la presente natura umana, che preferisce 'le cose come stanno' ci renda moralmente incapaci di conseguire l'eterno 'dover essere' con cui dobbiamo sempre confrontarci".

E dunque, sforziamoci di conseguire il mondo che deve essere, quella scintilla del divino che ancora brilla in ognuna delle nostre anime. Da qualche parte oggi, qui e adesso, un soldato vede che il nemico ha più potenza di fuoco, ma tiene la posizione per conservare la pace.
Da qualche parte, oggi, in questo mondo, un giovane manifestante sa che il suo governo reagirà con la forza bruta, ma ha il coraggio di continuare a marciare. Da qualche parte, oggi, una madre che deve fare i conti con una straziante miseria trova ancora il tempo per insegnare al suo bambino, che è convinto che in un mondo crudele ci sia ancora spazio per i suoi sogni.

Dobbiamo vivere secondo il loro esempio. Possiamo riconoscere che l'oppressione non sarà mai sconfitta, ma nonostante questo continuare a lottare per la giustizia. Possiamo ammettere che la depravazione è impossibile da sconfiggere, ma nonostante questo continuare a lottare per la dignità. Possiamo essere consapevoli che ci sarà la guerra, e nonostante questo continuare a lottare per la pace. Possiamo farlo, perché questa è la storia del progresso umano, questa è la speranza di tutto il mondo; e in questo momento di sfide dev'essere il nostro compito, qui sulla Terra.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

martedì 8 dicembre 2009

NO GRAZIE

da CYRANO DI BERGERAC di Edmond Rostand ( tratto dal sito www.liberliber.it )
CIRANO
Orsù che dovrei fare?...
Cercarmi un protettore, eleggermi un signore,
e dell'ellera a guisa che de l'olmo tutore
accarezza il gran tronco e ne lecca la scorza,
arrampicarmi, invece di salire per forza?
No, grazie! Dedicare, com'usa ogni ghiottone,
dei versi ai finanzieri? Far l'arte del buffone
pur di vedere al fine le labbra di un potente
schiudersi ad un sorriso benigno e promettente?
No grazie! saziarsi di rospi? Digerire
lo stomaco per forza dell'andare e venire?
consumar le ginocchia? misurar le altrui scale?
far continui prodigi di agilità dorsale?
No, grazie! Accarezzare con mano abile e scaltra
la capra e in tanto il cavolo inaffiar con l'altra?
e aver sempre il turibolo sotto de l'altrui mento
per la divina gioia del mutuo incensamento?
No, grazie! Progredire di girone in girone,
diventare un grand'uomo tra cinquanta persone,
e navigare con remi di madrigali, e avere
per buon vento i sospiri di vecchie fattucchiere?
No, grazie: Pubblicare presso un buon editore,
dagando, i propri versi? No, grazie dell'onore!
Brigar per farsi eleggere papa nei concistori
che per entro le bettole tengono i ciurmatori?
Sudar per farsi un nome su di un picciol sonetto
anzi che scriverne altri? Scoprire ingegno eletto
agl'incapaci, ai grulli; alle talpe dare ali,
lasciarsi sbigottire dal romor dei giornali?
e sempre sospirare, pregare a mani tese:
— Pur che il mio nome appaia nel Mercurio francese?
No, grazie! Calcolare, tremar tutta la vita,
far più tosto una visita che una strofa tornita,
scriver suppliche, farsi qua e là presentare?...
Grazie, no! grazie, no! grazie, no! Ma... cantare,
sognar sereno e gaio, libero, indipendente,
aver l'occhio sicuro e la voce possente,
mettersi quando piaccia il feltro di traverso,
per un sì, per un no, battersi o fare un verso!
Lavorar, senza cura di gloria o di fortuna,
a qual sia più gradito viaggio, nella luna!
Nulla che sia farina d'altri scrivere, e poi
modestamente dirsi: ragazzo mio, tu puoi
tenerti pago al frutto, pago al fiore, alla foglia
pur che nel tuo giardino, nel tuo, tu li raccoglia!
Poi, se venga il trionfo, per fortuna o per arte,
non dover darne a Cesare la più piccola parte,
aver tutta la palma della meta compita,
e, disdegnando d'essere l'ellera parassita,
pur non la quercia essendo, o il gran tiglio fronzuto
salir anche non alto, ma salir senza aiuto!

giovedì 3 dicembre 2009

FIORELLA MANNOIA, CRUCIANI, IL MOTOR SHOW E LA DIGNITA' DELLE DONNE

Lettera inviata a Radio24 il 2 dicembre 2009
Egr. Sig. Direttore,

Alla fine della scorsa settimana ho ascoltato, dal conduttore del programma “la Zanzara”, critiche piuttosto nette a Fiorella Mannoia che in una intervista ha detto, più o meno (vado a memoria): “Stanno togliendo la dignità alle donne” in merito alla mercificazione del corpo e del ruolo delle donne, sempre più abituale ed evidente dopo una stagione culturale ormai passata, ed evidenziato da conosciute vicende.

La tesi di Cruciali, mi si perdoni la rozza sintesi, è che la dignità una la perde se lo vuole lei.

Lunedì mattina sono state lette 3 o 4 lettere di noi ascoltatori sullo stesso tenore. Sono stati interventi che mi hanno fatto riflettere, soprattutto nell’affermazione strenua dell’individualità che io, forse con un retaggio culturale tipico di un uomo di sinistra, penso possa essere a volte manipolata e indirizzata dalla forza convincente dei condizionamenti culturali e mediatici. “Sono proprio arcaico” pensavo “e con me lo è Fiorella Mannoia “.

Poi ho visto la pubblicità del Motor Show. Un fotografia che riprende un angolo di una casa, un tappeto e delle tende in fondo, campeggia la scritta “VIENI A GIOCARE” e questi oggetti di divertimento (non uso le parole a caso): una trottola, mattoncini, un modellino di motocicletta, un modellino di auto sportiva, una barbie con tacchi alti, gonna corta, gambe lunghe, chinata sull’auto in modo da esporre il sedere all’attenzione e sguardo ammiccante. In un ambiente di gioco maschile la barbie così non risulta incongrua (ho colto il messaggio degli organizzatori?) Fosse stata una donna in carne ed ossa avrei pensato, ammonito da Cruciani: “è lei che ha scelto di essere esposta così”. Ma mi ha colpito il fatto che fosse una bambola. A una bambola non le chiedi ne se come oggetto, ne se come immagine di donna "gioco" per uomini accetta di farsi posizionare così. E ho anche pensato che forse Fiorella Mannoia non ha detto un emerita sciocchezza.

Grazie per l’attenzione.

Cordiali saluti.

sabato 7 novembre 2009

DIBATTITO SUL CROCEFISSO

Premetto che per me banalmente il Crocefisso non dovrebbe essere appeso ai muri delle classi delle nostre scuole per la semplice ragione che le classi sono luoghi dello Stato, e non perchè la visione del Crocefisso possa turbare qualcuno, perchè vedere Gesù Cristo in croce può solo farci del bene, di qualunque religione siamo o non siamo, e se ci turba, dobbiamo solo ringraziarlo, perchè vuol dire che ci mette a confronto con la nostra pochezza di uomini fallaci. Detto questo copio, sfidando il copyright, uno stupendo intervento di Claudio Magris sul Corriere della Sera di oggi. E' lungo, ma credo che ogni parola scritta valga la pensa sia letta.
Il crocifisso, simbolo di sofferenza che non può offendere nessuno
Il giovane Sami Albertin — la cui madre ha chiesto la rimozione del crocifisso dalle scuole statali approvata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ricevendo per questo su forum e blog volgari insulti da chi, per il solo fatto di proferirli, non ha diritto di dirsi cristiano — dev’essere molto sensibile e delicato come una mimosa, se, com’egli dice, «si sentiva osservato» dagli occhi dei crocifissi appesi nella sua classe.

Se erano tre, come egli ricorda, erano un po’ troppi, ma provare turbamenti da giovane Werther o da giovane Törless è forse un po’ esagerato; fa pensare a quella prevalenza dei nervi sui muscoli irrisa da Croce, che preferiva studenti studiosi e gagliardi a precoci giacobini.

La sentenza e soprattutto i suoi strascichi provocheranno — ed è questa la conseguenza più grave — un passo indietro in quella continua lotta per la laicità che è fondamentale, ma che è efficace — ha ricordato Bersani, uno dei pochi a reagire con equilibrio a tale vicenda — solo se non travolge il buon senso e non confonde le inique ingerenze clericali da combattere con le tradizioni che, ancora Bersani, non possono essere offensive per nessuno. La difesa della laicità esige ben altre e più urgenti misure: ad esempio — uno fra i tanti — il rifiuto di finanziare le scuole private, cattoliche o no, e di parificarle a quella pubblica, come esortava il cattolicissimo e laicissimo Arturo Carlo Jemolo.

Sono contrario a ogni Concordato che stabilisca favori a una Chiesa piuttosto che a un’altra anche se numericamente poco rilevante; ritengo ad esempio — è solo un altro esempio fra i tanti — che il matrimonio cattolico e il suo eventuale annullamento ecclesiastico non dovrebbero avere alcuna rilevanza giuridica, che dovrebbe essere conferita solo dal matrimonio e dal suo eventuale annullamento civile. «Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato!», pare abbia detto Cavour in punto di morte al religioso che lo esortava a confessarsi. Forse è una leggenda, ma esprime bene la fede nel valore della laicità — che non è negazione di alcuna fede religiosa e può anzi coesistere con la fede più appassionata, ma è distinzione rigorosa di sfere, prerogative e competenze.

L’obbligatoria rimozione del crocifisso è formalmente ineccepibile, in quanto la separazione fra lo Stato e la Chiesa — tutte le Chiese — non richiede di per sé la presenza di alcun simbolo religioso. La legge tuttavia consente di temperare la formale applicazione del diritto con l’equità ossia con la giustizia nel caso concreto. Ad esempio è giusto che i responsabili di istituzioni pubbliche non possano affidare lavori che riguardino quest’ultime senza indire pubbliche gare di appalto, perché altrimenti si favorirebbe la corruzione.

Confesso che trenta o quarant’anni fa, all’epoca in cui dirigevo a Trieste un minuscolo e fatiscente Istituto di Filologia germanica, quando in una gelida giornata invernale di bora si era rotto il vetro di una piccola finestra ed entrava il gelo, non ho indetto alcuna gara d’appalto bensì ho cercato nella guida telefonica il vetraio più vicino, l’ho chiamato e gli ho pagato la piccola cifra richiesta, facendola gravare sulle piccole spese destinate all’acquisto di cancelleria, gomme, carta igienica, gesso.

Formalmente sarebbe stato possibile incriminarmi, ipotizzando un mio illecito accordo col vetraio; ad ogni buon conto confesso il reato solo ora, in quanto caduto in prescrizione. Credo tuttavia che, in quel caso come in altri, ciò avrebbe convalidato il detto, proclamato da rigorosi giuristi e non da teste calde, «summum ius, summa iniuria» — massimo diritto, massima ingiustizia.

E così forse è il caso del crocifisso. Quella figura rappresenta per alcuni ciò che rappresentava per Dostoevskij, il figlio di Dio morto per gli uomini; come tale non offende nessuno, purché ovviamente non si voglia inculcare a forza o subdolamente questa fede a chi non la condivide. Per altri, per molti, potenzialmente per tutti, esso rappresenta ciò che esso rappresentava per Tolstoj o per Gandhi, che non credevano alla sua divinità ma lo consideravano un simbolo, un volto universale dell’umanità, della sofferenza e della carità che la riscatta. Un analogo discorso, naturalmente vale per altri volti universali della condizione umana, ad esempio Buddha, il cui discorso di Benares parla anche a chi non professa la sua dottrina ed è radicato nella tradizione di altre civiltà come il cristianesimo nella nostra. Per altri ancora, scriveva qualche anno fa Michele Serra, quel crocifisso è avvolto dalla pietas dei sentimenti di generazioni. Altri ancora possono essere del tutto indifferenti, ma difficilmente offesi.

Si può e si deve osservare che le potenze terrene di cui quel crocifisso è simbolo e sostanza ossia le Chiese si sono macchiate e talvolta si macchiano ancora di violenze, prepotenze, ipocrisie, che negano quell’uomo in croce e fanno del male agli uomini. Tutte le Chiese, non solo la cattolica; anche i protestanti hanno i loro roghi di streghe e la consonante finale dell’orrenda sigla razzista wasp (bianchi anglosassoni protestanti, sprezzantemente contrapposti ai neri). Naturalmente, siccome a noi stanno sullo stomaco le prepotenze della Chiesa cattolica, quando essa le commette, è giusto prendersela con essa prima che con le malefatte di altre confessioni in altri Paesi.

Ma come quella p di wasp non offusca la grandezza della Riforma protestante e del suo libero esame, i misfatti e le pecche delle Chiese cristiane d’ogni tipo non offuscano l’universalità di Cristo, che anzi le chiama a giudizio. Su ogni bandiera e anche sulla croce ci sono le fetide macchie dei delitti commessi dai loro seguaci. In nome della patria si sono perpetrate violenze feroci; in nome della libertà e della giustizia si sono innalzate ghigliottine e creati gulag; in nome del profitto svincolato da ogni legge si sono compiute inaudite ingiustizie e crimini. Sulla bandiera dell’Inghilterra e della Francia c’è anche lo sterco della guerra dell’oppio, una guerra mossa per costringere un grande ma allora indifeso Paese a drogarsi in nome del profitto altrui.

L’elenco potrebbe continuare a piacere. Ma le barbarie nazionaliste non cancellano l’amor di patria; la guerra dell’oppio non cancella l’universalità della Magna Charta e della Dichiarazione dei Diritti dell’89 e quelle bandiere, inglese e francese, restano degne di rispetto e d’amore; il gulag installato in uno Stato che si proclamava socialista non distrugge l’universalità del socialismo e la ghigliottina non ha decapitato l’idea di libertà e di repubblica. E così tutto il negativo che si può e si deve addebitare alle Chiese cristiane non può far scordare anche il grande bene che loro si deve; la Chiesa cattolica non è solo Monsignor Marcinkus; è anche don Gnocchi e don Milani o padre Camillo Torres, morto combattendo per difendere i più miseri dannati della terra.

Quell’uomo in croce che ha proferito il rivoluzionario discorso delle Beatitudini non può essere cancellato dalla coscienza, neanche da quella di chi non lo crede figlio di Dio. La bagarre creata da questa sentenza farà dimenticare temi ben più importanti della difesa della laicità, fomenterà i peggiori clericalismi; dividerà il Paese in modo becero su entrambi i fronti, darà a tanti buffoni la tronfia soddisfazione di atteggiarsi a buon prezzo a campioni della Libertà o dei Valori, il crocifisso troverà i difensori più ipocriti e indegni, quelli che a suo tempo lui definì «sepolcri imbiancati».

Il Nostro Tempo ha ricordato che Piero Calamandrei — laico antifascista, intransigente nemico della legge truffa dei governi democristiani e centristi di allora— aveva proposto di affiggere, nei tribunali, il crocifisso non alle spalle ma davanti ai giudici, perché ricordasse loro le sofferenze e le ingiustizie inflitte ogni giorno a tanti innocenti. Evidentemente Calamandrei era meno delicatino del giovane Albertin.

In Italia, la sentenza è un anticipato regalo di Natale al nostro presidente del Consiglio, cui viene offerta una imprevista e gratissima occasione di presentarsi nelle vesti a lui invero poco consone, di difensore della fede, dei valori tradizionali, della famiglia, del matrimonio, della fedeltà, che quell’uomo in croce è venuto a insegnare. È venuto per tutti, e dunque anche per lui, ma questo regalo di Natale non glielo fa Gesù bambino bensì piuttosto quel rubizzo, giocondo e svampito Babbo Natale che fra poche settimane ci romperà insopportabilmente le scatole, a differenza di quel nato nella stalla.

Claudio Magris
07 novembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA

giovedì 5 novembre 2009

LA MODA E LA MORTE SORELLE

Giacomo Leopardi, Operette Morali, "Dialogo della Morte e della Moda" (estratto)
Moda “io sono la Moda, tua sorella”
Morte “ mia sorella?”
Moda “ Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità?”
Morte “che m’ho a ricordare io che sono nemica capitale della memoria”
Moda “ Ma io me ne ricordo bene; e so che l’una e l’altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché tu vada a questo effetto per una strada e io per un’altra.”
Morte “…”
Moda “ … Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono perà mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v’improntino per bellezza; sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho fatto in America e in Asia; storpiare la gente colle calzature snelle, chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla struttura dei bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente, per l’amore che mi portano. (…)
Morte “ In conclusione io ti credo che mi sii sorella e, se tu vuoi, l’ho più per certo della morte. (…)

domenica 1 novembre 2009

MICHELE SERRA RISPONDE

Lettera terribile, perchè implacabilmente lucida. Ma ho il fondato sospetto, gentile professoressa, che lei ometta di riferirci (per pudore) quanto le attraversa il cuore vivendo a stretto contatto con le sue fanciulle.
Le dirò, allora, quanto è capitato a me leggendo le sue parole: breve scoramento e subito dopo un sentimento di profonda tenerezza, protezione, responsabilità di fronte a quelle ragazzine. Il loro universo emotivo non può essere miserabile e conformista come il loro giudizio sulla vicenda dimostrerebbe. La loro parte "buona", e perfino quella "cattiva", è sicuramente più densa, e ricca, e irriducibile della caricatura di vita sessuale proposta alla Nazione dalle gesta del signor B. e della sua corte. Le loro speranze, le loro ambizioni, non possono accontentarsi di questo piatto di lenticchie: e sono sicuro che lei per prima, cara Margherita, non accetterà che le sue alunne si facciano fregare prima ancora di avere cominciato la loro gara.
Noi "moralisti" tendiamo a dire cose edificanti, ipo "devi essere più onesto, più buono, più rispettoso". In casi come questi, forse funziona meglio un altro tasto: dica alle sue alunne che la parte loo riservata, in questo gioco di ruoli, è quella delle comparse. Dica loro che, una per una, sono molto più importanti di Berlusconi (e infinitamente più giovani, dunque infinatamente più potenti: e Berlusconi lo sa benissimo, per questo si circonda di ragazzine). Dica loro che devono pretendere la Luna, non accontentarsi dei ninnoli. Che devono comandare, non obbedire. Stia vicina alle sue ragazze: per quanto stordite, per quanto domate, non meritano di firmare un contratto così svantaggioso con la vita

venerdì 30 ottobre 2009

SE IL SIGNOR B. E LE ESCORT FANNO SCUOLA TRA I GIOVANI

Traggo da IL VENERDI' di Repubblica la lettera di una insegnante a Michele Serra.
"Gentile Serra, quella di Repubblica contro B. è una battaglia persa, definitivamente. Le mie allieve di una classe quinta professionale, ragazze fresche, gentili, apparentemente ingenue, hanno scoperto,grazie a Santoro, la vicenda delle escort e Berlusconi è diventato il loro eroe. Si è spalancato un mondo di meravigliose opportunità che non avevano finora preso in considerazione. In breve: è fantastico per loro, che faticano a leggere e comprendere un libro di testo di storia o di economia, scoprire che esiste un uomo di potere che, in cambio di un orgasmo, ti candida in Europa. Hanno detto: tutti vanno a puttane, anche i comunisti, se poi B. le candida anche è semplicemente più generoso dei suoi avversari.
Cerchiamo tutti quanti di far capire alla Gelmini che è questa l'idea di meritocrazia che sta conquistando la fantasia delle fanciulle. IO continuerò orgogliosamente, ostinatamente a dichiararmi moralista"
Non pubblico subito la risposta di Serra. Chi compra Repubblica la conosce, chi non la legge ha tempo e spazio per meditare una risposta ed eventualmente condividerla. Domenica scriverò ciò che ha risposto Serra.

martedì 27 ottobre 2009

UN INIZIO PROMETTENTE

Sto iniziando a leggere un libro:"LA LAICITA' AL TEMPO DELLA BIOETICA" di Claudia Mancina, e nella introduzione trovo questa frase: " ... l'idea della RAGIONE PUBBLICA, cioè l'idea che le decisioni politiche debbano essere giustificate sulla base di ragioni derivanti da una cultura e una pratica politica che si basa su principi e valori autonomi, e non sulla base di convinzioni etiche che non possono essere imposte a chi già non le condivida; e la propongo come una nuova versione della laicità. Essa ci consente anche di articolare in modo nuovo la necessaria distinzione tra etica e politica. La politica non può essere lo spazio di applicazione dell'etica, per la semplice ragione che una concezione etica è solo di alcuni, mentre la politica è proprio lo spazio nel quale incontriamo persone che seguono concezioni etiche diverse dalle nostre. I valori della politica sono quelli della convivenza e del reciproco rispetto, e nell'ambito politico sono questi che seguiamo. Non c'è una scissione tra le nostre convizioni etiche e i valori politici; non ci viene richiesto di rinunciare a noi stessi o alle verità di cui ci sentiamo certi, ma di rinunciare a fare di quelle verità la base delle decisioni pubbliche, e di cercare invece, insieme agli altri nostri concittadini, decisioni che siano accettabili per tutti. E' una richiesta di eguale rispetto, di disposizione alla reciprocità, che è insita nel legame di cittadinanza"
Indubbiamente un buon inizio, e, rovesciando l'approccio più immediato e facile, non interrogo "gli altri" su questi concetti, ma li rivolgo (e mi interrogo e mi metto in dubbio) a me ateo e laico.

lunedì 19 ottobre 2009

ALLORA E' PROPRIO COSI'?

da "L'eleganza del riccio" di Muriel Barbery.
Allora è proprio così? Di colpo svaniscono tutte le possibilità? Una vita piena di progetti, di discussioni appena abbozzate, di desideri ancora non esauditi si spegne in un secondo, e non rimane più niente, non c'è niente da fare, non si può più tornare indietro?

mercoledì 14 ottobre 2009

COME SCORRE LA VITA DUNQUE?

da "L'eleganza del riccio" di M. Barbery.
Come scorre la vita dunque? Giorno dopo giorno ci sforziamo di fare la nostra parte in questa commedia fantasma. Da primati quali siamo, la nostra attività consiste essenzialmente nel mantenere e curare il nostro territorio affinchè ci protegga e ci soddisfi, nell'arrampicarci o almeno non scendere nella scala gerarchica della tribù, e nel fornicare in tutti i modi possibili -foss'anche con la fantasia - sia per il piacere che per la discendenza promessa. Allo stesso modo usiamo una parte non trascurabile della nostra energia per intimidire o sedurre, poichè queste due strategie da sole assicurano la brama territoriale, gerarchica e sessuale che anima il nostro conatus. Ma niente di tutto ciò raggiunge la nostra coscienza. Parliamo di amore, di bene e di male, di filosofia e di civiltà, e ci attacchiamo a queste rispettabili icone come una zecca assetata al suo cagnolone caldo

mercoledì 16 settembre 2009

NON POSSIAMO TACERE

El Katawi Dafani ha ucciso la figlia Sanaa perchè non poteva accettare le sue scelte in tema di sessualità, stile di vita, scelta di tipo di famiglia, legame multiculturale e multireligioso. In poche parole CONVIVEVA CON UN ITALIANO CATTOLICO.
Noi che siamo laici, che lottiamo per i diritti delle persone a scegliersi il tipo di famiglia che desiderano, che difendiamo la libertà di scelta e persino il corpo delle donne dagli abusi fisici e mediatici, che osteggiamo quel cattolicesimo che non vuole concedere alle persone la libertà di decidere del proprio corpo fino alla scelta di fine vita, non possiamo tacere di fronte a questo scandalo. Scandalo maggiorato dal fatto che leggiamo sui giornali che il signor El Ketawi è descritto come un cittadino ligio al dovere, gran lavoratore e integrato con i compagni di lavoro. QUESTO NON BASTA. Non ci può rendere indifferenti al suo credersi padrone della vita di un'altra persona, dio in terra che da e toglie la vita, in nome di una religione, o meglio del fatto che i dettati di una religione siano più importanti della scelta di una persona di seguirli o meno.
Ma questo scandalo interroga, deve interrogare, la comunità musulmana ( e senza voler aprire la domanda al mondo o all'Italia, io la rivolgo agli amici della mia città, Trezzo). Non potrei accettare il loro silenzio. Questo scandalo credo, auspico, imponga una parola chiara e forte se il signor El Katawi è rappresentativo o un pazzo isolato e se Sanaa, come Hina, è morta per nulla o quel sangue potrà almeno nutrire la terra dove crescano diritti uguali per tutti gli uomini e le donne.

venerdì 11 settembre 2009

SALTELLANDO TRA LE MOZIONI AL CONGRESSO PD 2

Mi chiedo cosa intenda Franceschini quando, prendendo spunto dalla “velocità del cambiamento (del mondo) ci invita a pensare “ IN TERMINI NUOVI”. Che significato hanno queste parole? Franceschini ci dice che il mondo “riscopre una identità”nomade”, le nostre certezze vengono travolte, sembriamo “condannati a vivere nel presente, incapaci di guardare lontano, (ma)… guardando la terra che si calpesta anziché tenendo lo sguardo sull’orizzonte…”.
E’ una riflessione interessante, ma c’è quell’inizio, TERMINI NUOVI che mi lascia perplesso. Troppe volte (direi dal 1989 almeno) NUOVO ha assunto un significato improprio, positivo, che non gli appartiene. Dopo anni di “nuovismo” che si insinua dappertutto, finalmente quest’anno abbiamo potuto leggere un leader che ci ha detto che se i problemi che ci troviamo davanti sono o ci sembrano nuovi, ma i valori che ci consentono di affrontarli e superarli sono vecchi (cito Le sfide che dobbiamo affrontare forse sono sfide nuove. Gli strumenti con cui le affrontiamo forse sono nuovi. Ma quei valori da cui dipende il nostro successo, il duro lavoro e l'onestà, il coraggio e la gentilezza, la tolleranza e la curiosità, la lealtà e il patriottismo, queste cose sono antiche. Dal discorso di insediamento del Presidente USA B. Obama). Anche alla luce di queste parole, ciò che scrive Franceschini risulta vago e impreciso, e soprattutto non libera dai dubbi.

giovedì 10 settembre 2009

SALTELLANDO TRA LE MOZIONI AL CONGRESSO PD

Bersani nella sua Mozione a un certo punto, nel capitolo LEGALITA' e DEMOCRAZIA, scrive: "E quale credibilità può avere il governo delle leggi ad personam per chiedere ai dipendenti pubblici di essere irreprensibili?" Se la credibilità etica di buona parte del nostro governo può essere messa in discussione, questo è irrilevante, a mio avviso, rispetto alla necessità, indisponibile a qualsiasi giustificazione, che il dipendente pubblico sia irreprensibile nel suo operare come dipendente dello stato o delle amministrazioni diverse e locali. La irreprensibiltà del dipendente pubblico deve essere, come dire, "di default", un apriori che non può essere messo in discussione, pena il collasso dell'amministrazione pubblica e quindi dello stato (forse il nostro scenario?), anche in presenza del peggior governo possibile. La riforma auspicata e prevista da Bersani della amministrazione diventa un esercizio sterile se non si prevede una riforma morale che deve coinvolgere tutta la nazione e che può essere una "Mission" per un partito che vuole essere il partito del secolo.

sabato 29 agosto 2009

IL MORALISMO MESSO A NUDO

FILOSOFIA MINIMA di ARMANDO MASSARENTI
Tratto da “DOMENICA” il SOLE XXIV ORE
IL MORALISMO MESSO A NUDO

Parlare a sproposito di morale, moralismo e antimoralismo è uno sport tipico di quei paesi che della morale hanno un’idea approssimativa; o “vaga e niente stringente”, per dirla con il Giacomo Leopardi di “Sullo stato presente dei costumi degli italiani”. A proposito di costumi, mi trovavo in vacanza in Costa Azzurra con un gruppo di amici, tre donne e due uomini. Un giorno ci siamo avventurati, ai piedi dell’Esterel, alla ricerca di una nuova caletta. Arrivati quasi in fondo al sentiero ci siamo accorti di essere finiti senza volerlo in una spiaggia di nudisti. Che fare? Dopo un breve consulto, abbiamo deciso di rimanere a patto di non trasgredire la regola implicita della spiaggia, perché altrimenti ci saremmo sentiti fuori luogo. Tanto valeva andare in una spiaggia normale. Così anche quelli un po’ riluttanti, che dovevano superare l’imbarazzo della prima volta, si sono denudati. La spiaggia era popolata di familiare di tedeschi e di francesi, con tanto di bambini, ma anche di nudisti solitari, magari un po’ narcisisti ma per nulla fastidiosi. C’erano anche dei gay e una coppia di donne sulla sessantina immersa in coltissime letture. Era tutto molto tranquillo. Ci siamo trovati meglio che in altre spiagge e siamo tornati diverse volte.
Un giorno abbiamo visto scendere verso di noi una vociante comitiva di nostri connazionali, colti dalla stessa sorpresa del nostro primo giorno: ”Ma è una spiaggia di nudisti!” esclama una donna. “Andiamo via”, dice un’altra. Ma i maschi preferiscono rimanere e tutti si sistemano in un punto che domina la spiaggia. Solo una donna smette in topless. I maschi restano con i loro costumoni da commendatore. Sono vicini a noi. Purtroppo possiamo sentire i commenti puerili e volgari su ciò che osservano. A un certo punto ci accorgiamo che uno di loro, di nascosto, sta scattando delle foto con il telefonino!
Posso dire liberamente che ho provato un senso di profondo disprezzo – un disprezzo “morale”- per questi italiani?Posso dire che mi pare rappresentino lo stato di imbecillità etica in cui vive oggi una parte consistente del paese?E che questo modo vile di ottener piccoli (e assai dubbi) vantaggi in forza della trasgressione di una regola condivisa che altri seguono anche e solo in nome della buona creanza è uno dei tratti più tipici del nostro costume nazionale? O sarò accusato anch’io di essere un becero moralista?

domenica 26 luglio 2009

MUTI E SORDI PER VENTI ANNI, LI HA RISVEGLIATI UNO SFARFALLIO DI MUTANDE

"QUESTA E' LA DOMANDA". GRAZIE MICHELE SERRA PER AVERLA POSTA

DALL' "AMACA" DI MICHELE SERRA SU REPUBBLICA DEL 26 LUGLIO

"E dunque sembra che parte del mondo cattolico consideri con fastidio il portamento sessuale del signor B. Quello che resta oscuro - per le anime semplici com chi scrive (e chi trascrive -rs-) è che cosa, nel corso degli ultimi venti anni, il suddetto mondo cattolico abbia pensato di tutto il resto: dell'accumulo di potere, dello sfoggio di ricchezza, dei mercanti nel tempio, dell'umiltà ignorata, delle leggi piegate a interessi privati, della comunità mercificata, dell'ingordigia lodata, della sobrietà dimenticata. C'era forse qualcosa di evangelico, nella parabola del signor B.? Qualcosa di pio nei suoi palinsesti? Qualcosa di salvifico in lui medesimo come ebbe a dire nei suoi giorni estremi il povero Baget Bozzo?
Possibile che per tanti cattolici sia sempre e solo il sesso a produrre sobbalzi etici, ripensamenti morali? Non era già abbastanza antcristiano un signore venuto al mondo per santificare i quattrini e la pacchianeria del potere, banalità per altro già abbastanza arcidiffuse? C'entrava qualcosa con De Gasperi? Con Sturzo? Con il cristianesimo sociale, con lo scoutismo austero, con il pallore delle suorine, con i canti ciellini? (altra nota di rs- avete visto come rideva il casto Formigoni alla battuta "ci sono tante belle figliole, imprenditori solidi... e io no sono un santo?" Servilismo o cambio di stile di vita?) SONO STATI MUTI E SORDI PER VENT'ANNI.. LI HA RISVEGLIATI UNO SFARFALLIO DI MUTANDE

venerdì 10 luglio 2009

STEFANO BENNI: BAR SPORT 2000

Nel 1997 Stefano Benni scriveva un libro intitolato: BAR SPORT 2000”. A pag. 38 analizzava la figura dell’incazzato.
“CON CHI È INCAZZATO? Difficile dirlo. Con “quelli là” con “i soliti” con “lei sa bene di chi parlo”, forse il governo, forse l’opposizione, forse i vigili, forse gli americani, i padroni di cani, i capostazione o un allenatore di calcio. La sua incazzatura è così globale e pervasiva che può passare da un obiettivo all’altro nella stessa espirazione di fiato…
… Idee politiche dell’incazzato. Quasi impossibili da stabilire. La sua ideologia ringhia e saltella su un ring che comprende razzismo e paternalismo, estetica nazista e repulisti staliniani, buonsenso e guerriglia, NON NOMINANDO MAI I NEMICI PER NOME ma chiamandoli appunto “quelli là” o vaporizzandoli in un vortice di insulti. Il suo odio indistinto è rivolto verso ogni forma di vita amministrativa, sociale e animale (ad esempio i cassieri degli sportelli e i ragazzi che vanno in discoteca, i cani che sporcano per strada). Perciò è difficile attribuirlo a uno schieramento politico, anche se ha i suoi amori, che sono per lo più beceri televisivi, tiranni del passato e chiunque abbia usato il mitra in maniera seriale”.
NELL’ITALIA DEL 2009 POSSIAMO DARE UNA RISPOSTA A BENNI: I NEMICI SONO I MIGRANTI E LA SINISTRA.
Stefano Benni, credo che lei possa completare il capitolo

Da Stefano Benni, Bar Sport Duemila