sabato 21 dicembre 2013

NELSON MANDELA: "In seguito capii che quel giorno l’ignorante ero io, non il capo"

NELSON MANDELA. LUNGO CAMMINO VERSO LA LIBERTA’
Pag. 37
Oratore principale della giornata era il capo Meligqili, figlio di Dalindyebo, e dopo averlo ascoltato i miei fulgidi sogni divennero immediatamente più cupi. Meligqili cominciò nel modo convenzionale, dicendo che era bello trovarsi riuniti per continuare una tradizione che esisteva da tempo immemorabile. Poi si voltò verso di noi, e il suo tono cambiò bruscamente: “Qui, “ disse, “siedono i nostri figli: giovani, sani, belli, il fiore della tribù xhosa, l’orgoglio della nostra nazione. Da poco li abbiamo circoncisi, con un rito che promette di introdurli nel mondo degli uomini; io sono qi a dirvi che questa è una promessa vuota, vana, una promessa che non potrà mai essere mantenuta. Perché noi xhosa, e tutti i sudafricani neri, siamo un popolo conquistato. Noi siamo schiavi nel nostro paese, siamo inquilini sul nostro suolo. Non abbiamo la forza, non abbiamo il potere, non abbiamo il controllo del nostro destino nella terra sulla quale siamo nati. Questi figli andranno nelle città, a vivere nelle baracche e a bere alcool di qualità scadente, perché noi non possiamo offrire loro una terra sulla quale vivere e prosperare. Sputeranno i polmoni nelle viscere delle miniere dei bianchi, si distruggeranno la salute, rinunceranno a vedere il sole per garantire ai bianchi una vita di prosperità senza pari. Tra questi giovani ci sono capi che non governeranno mai perché non abbiamo il diritto di governarci, soldati che non combatteranno mai perché non abbiamo armi con cui combattere; docenti che non insegneranno mai perché non abbiamo luoghi dove farli studiare. Le capacità, l’intelligenza, il potenziale di questi giovani andranno sperperati nello sforzo di guadagnarsi da vivere svolgendo i servizi più umili, più semplici, per i bianchi. I doni che abbiamo offerto oggi non sono niente se non possiamo offrire il dono più grande, che è l’indipendenza, la libertà. So bene che Qamata vede tutto e non dorme mail, ma sospetto che da qualche tempo si sia un po’ appisolato. Se è così spero di morire presto, almeno potrò andare a riscuoterlo, a dirgli che i figli di Ngubencguka, il fiore della nazione xhosa, stanno morendo”
Mentre il capo Meligqili parlava, il pubblico si era fatto sempre più silenzioso e, mi pareva, sempre più arrabbiato. Nessuno voleva udire le parole che egli aveva pronunciato quel giorno. So che nemmeno io volevo udirle. Le sue osservazioni, più che stimolarmi mi avevano irritato, le liquidavo come l’opinione sbagliata di un uomo ignorante incapace di apprezzare il valore dell’istruzione e i benefici che i bianchi avevano portato al paese. A quel tempo, vedevo i bianchi non come oppressori ma come benefattori e pensavo che il capo Meligqili fosse di un’ingratitudine estrema. Quell’uscita stava rovinando la mia festa, gustava la fierezza che provavo con osservazioni fuori luogo.

Ma senza che ne comprendessi pienamente il motivo, presto le sue parole incominciarono a scavarmi dentro. Un seme era stato piantato, e dopo esser rimasto in riposo per una lunga stazione, infine cominciò a germogliare. In seguito capii che quel giorno l’ignorante ero io, non il capo.

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