sabato 20 settembre 2014

QUALCHE PENSIERO SU IL LIBRO "IL DESIDERIO DI ESSERE COME TUTTI" DI FRANCESCO PICCOLO

mah... si si... no no... non so. Non riesco ad avere una opinione chiara e condivisa (con me stesso) sul libro “il desiderio di essere come TUTTI" di Francesco Piccolo, con quel TUTTI scritto in rosso con i caratteri dell'edizione dell’Unità nel giorno dei funerali di Berlinguer.
E' un bel libro o un libro banale? Parla anche di me, mi riguarda oppure pretende di farlo senza riuscirci? E' un racconto personale che in realtà vuole rappresentare una categoria di italiani con arguzia e ironia oppure è un libro che con superficiale ironia sfrutta il filone di moda nella triste Italia di questo decennio, o di questo trentennio, ovvero sparare sulla (Croce Rossa) gente di sinistra?
Non sono riuscito a capirlo.


Non lo capisco e quindi non so esprimere un giudizio. Più onesto scrivere qualche pensiero sparso, a immagine di come sto “digerendo” il libro dentro di me, per successivi stimoli di riflessione, idee e opinioni che mi vengono così all’improvviso nel corso della giornata.

Questo depone a suo favore, non mi ha lasciato indifferente

C’è una premessa da fare. Non conoscevo Piccolo fino a che non l’ho visto da Fazio promuovere un suo libro (prego tenere presente: da Fazio (RAI3) a promuovere un suo libro. E’ un fatto significativo da tenere presente quando lo sentiremo pontificare sul popolo di sinistra come se fosse tutto composto dai partecipanti alle terrazze romane e non da poveri cristi che cercano di comportarsi bene e sperano per se, per i propri figli e per anche gli sconosciuti in un mondo migliore). Ora non conoscevo Piccolo e lo sento leggere l’aneddoto sul sistema di sicurezza che ha visto sui treni (tipo: rompere questo vetro con il martello che è posto dietro al vetro). Comincio a ridere, compero il libro e quando ritrovo il paragrafo riprendo a ridere. Purtroppo Piccolo nel mio immaginario è legato a questo fatto e così me lo rappresento anche quando leggo altro di lui.

Sento un comune afflato nella ammirazione e nell'affetto per la persona di Enrico Berlinguer, mi chiedo se invece di un reazionario, come Piccolo lo definisce, politicamente, nel suo ultimo periodo (del referendum sulla scala mobile, dei fischi di Verona da parte dei socialisti italiani, in fondo della "questione morale") non fosse, lo dico sommessamente, invece un visionario. In fondo la "diversità'" dei comunisti non era una diversità acquisita o intrinseca, la storia politica e la cronaca giudiziaria ne sono testimoni dell’abbondante contrario, ma da conquistare giorno per giorno e da mantenere, ed era una diversità dalla diversità della norma. Cioè dall'abusato ed egoistico deviare dal normale comportamento del buon cittadino. (banalmente, secondo i detti popolari: non un predicare bene e razzolare male, non un fate come dico ma non fare ciò che faccio) Forse se tale diversità fosse stata vera, nel vissuto e nel comportamento soprattutto di chi ha in mano leve, grandi o piccole che siano, decisionali, ne avrebbe avuto giovamento l'Italia intera. Ecco la visionarietà di Berlinguer, “se devi proporre un certo modo di essere cittadino o politico, siilo prima tu in modo adamantino”; ed ecco perché viene rimpianto ma non seguito, portato ad esempio per crearne una immaginetta anestetizzando la durezza della richiesta etica.


“A noi della sinistra italiana, nella sostanza, non piacciono gli italiani che non fanno parte della sinistra italiana. Non li amiamo. Sentiamo di essere un’oasi abitata dai migliori, nel mezzo di un Paese estraneo. Di conseguenza sentiamo di non avere nessuna responsabilità. Se l’essere umano di sinistra sentisse una correità, non penserebbe di voler andare a vivere in un altro Paese, più degno di averlo come cittadino. Però, a questo Paese che non ci piace, che non possiamo amare, del quale non sentiamo di far parte, e che osserviamo inorriditi ed estranei, noi della sinistra italiana ad ogni elezione, siamo costretti a chiedere il voto. Vogliamo, cioè, che quella parte di Paese che disprezziamo, si affidi alle nostre cure. Ciò che puntualmente non avviene, proprio perché il resto del Paese sente questo senso di estraneità. E poiché non avviene, noi della sinistra italiana ci indigniamo di più, ci estraniamo di più e riteniamo di essere ancora meno responsabili di questo Paese di cui non sentiamo di far parte.” Che splendido paragrafo di banalità scritte bene, con tono lieve, ironico, autocritico (la prima persona plurale è la lingua espressa, la seconda persona plurale è la lingua dell’animo che si legge in trasparenza). Se confrontiamo questo incisivo e breve scritto con le centinaia o migliaia di scritti che ripetono ossessivamente questo mantra diventato ormai apodittico, possiamo vedere palesemente la rozzezza della scrittura o dell’eloquio di tanti altri sportivi (filosofi, politologi, opinionisti, predicatori, giornalisti… ) dediti al gioco di fine/inizio secolo: insultare chi umilmente ha ancora ideali che ritiene di sinistra e in ragione di questi ideali cerca di essere un cittadino mediamente onesto e mediamente per bene.

A un certo punto Piccolo scrive che non potrà mai perdonare i fischi e gli insulti che Craxi e i suoi scherani indirizzano verso Berlinguer al congresso del PSI di Verona. “Per me Craxi, da quel momento, rimarrà per sempre quello che dice che non ha fischiato solo perché non sa fischiare. Non c’era ancora il crescendo sfacciato del finanziamento ai partiti, il dilagare del potere senza controllo, Tangentopoli, l’esilio (esilio??? Piccolo ma che parole usa: si chiama LATITANZA!!! ) e tutto il resto. Tutto quello che è venuto dopo, e che riguarda Craxi e il suo disfacimento personale e politico, non mi ha più toccato nel profondo”

Questo è un punto che mi rende lontano da Piccolo. Si perdona o non si perdona chi ha qualche significato per noi. Io disprezzo al tal punto Craxi e la sua compagnia di nani e ballerine che non sento questa necessità.

Ho trovato invece una grande sintonia con Piccolo quanto narra del terremoto in Irpinia

“ Leggevamo i giornali e guardavamo immagini terribili alla televisione. Si parlava di aiuti, di disorganizzazione, di lentezza. Per questo c’erano volontari che partivano da tutta Italia per andare nei paesi distrutti, in molti partivano anche dalla mia città, e noi ci dicevamo continuamente che dovevamo andare, che sarebbe stato giusto, in intanto non andavamo”. In questo un po’ pigro un po’ vile mi ci ritrovo. Anche da Trezzo sono partiti dei giovani e degli uomini, credo coordinati da quella grande persona che è don Giovanni Afker, e io non sono andato. Mi sento come se arrivassi sempre un minuto dopo che il treno è partito, non posso fare quel viaggio, dico che mi sarebbe piaciuto prendere quel treno, ma ho trovato sempre mille motivi per non arrivare in orario. Spero ardentemente che i miei figli prendano tutti i treni con coraggio, dedizione e altruismo.

Ho come la sensazione di essere sfiorato da questo libro, che si legge volentieri, come se iniziassi a dire, parla anche di me e dopo qualche paragrafo mi accorgo che racconta di uno stereotipo o di un ambiente che non mi appartiene o al quale non appartengo pur avendo tante cose in comune.

Una ultima, per ora, annotazione sul personaggio di Chesaramai, la moglie, la compagna di Piccolo che con una apparente superficialità nel modo di affrontare i casi della vita, riesce a calmierare il naturale catastrofismo pessimista e la infinità problematicità dell’autore. Ho trovato molta similitudine nel rapporto tra me e Antonella, solo che in questo caso, nel catastrofismo pessimista, nella infinità problematicità, nei miei confronti, Piccolo lo è di nome e di fatto.



(forse continua)

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