Nati i pulcini, cresciuti quel tanto che era sufficiente per farli scorrazzare nell'aia sotto lo sguardo ormai distaccato delle due chiocce, mia madre pensò al bucato di primavera.
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Stacciai la cenere che, nelle ultime settimane, mia madre aveva messo da parte scegliendo con cura quella più bianca, e la deposi in un secchio accanto al trogolo di cemento, pieno zeppo di lenzuoli e di coperte bianche. Preparai il grande paiolo di rame riempito d'acqua e stipai l'ampia bocca della fornacetta con rami secchi e gambi di granoturco. Un pezzo di carta e un fiammifero sarebbero stati sufficienti per accendere, alle due di notte, il grande fuoco del bucato.
E alle due erano già nell'aia la Cecina e la Lena, col fazzoletto stretto in capo, due sacchi pesanti al posto del grembiule e gli zoccoli alti di legno per sollevarsi dalla pozzanghera che si sarebbe formata ben presto attorno al trogolo. Entrarono in cucina dove mia madre stava facendo bollire il pentolino del surrogato di caffè.
Aiutai poi a stendere il lenzuolo di tela grezza sul trogolo, e vi sparsi sopra uno strato di cenere. Non appena l'acqua bollì cominciai a versarla sopra, travasandola con due secchi di legno. Il ranno penetrava a fatica, sollevando caldi vapori.
- Hai messo troppa cenere - mi disse la Cecina
- Fa più fatica a scendere, ma la cenerata sbiancherà di più - mi difese mia madre.
Riempii ancora la caldaia d'acqua, rimpinzai la fornacetta con gambi di granoturco e mi sedetti sullo sgabello davanti al fuoco. Ogni tanto rintuzzavo i gambi bruciacchiati e ne aggiungevo altri, assieme a palate di tutoli.
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Seduto sullo sgabello ma proteso verso il fuoco, udivo i colpi ritmati sulle tavole di legno e, ogni tanto, un colpo più fondo, preparato e seguito da una breve pausa: era la ribattitura del lenzuolo preso saldamente dalle parti estreme prima che fosse strizzato a quattro mani e buttato nel mastello per la risciacquatura.
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L'acqua bolliva di nuovo: secchi d'acqua calda nel trogolo, buona da essere conservata come liscivia, e d'acqua fredda cavata dal pozzo per la caldaia; e nella fornacetta tutoli a palate e gambi a mazzi.
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-Ancora qualche secchio d'acqua per piacere - mi disse mia madre affacciandosi all'uscio del rustico.
Già due mastelli erano colmi di liscivia. uno sarebbe rimasto accanto al trogolo per il normale bucato settimanale, e l'altro suddiviso fra la Cecina e la Lena.
Mia madre era rossa in viso. Il fazzoletto che le raccoglieva i capelli s'era allentato, e alcune ciocche le ricadevano sulle guance. Le mani erano rosse per il calore dell'acqua e la liscivia.
-Prepara la polenta. Fra poco veniamo.
Ravvivai il fuoco nel camino della cucina. Le fette di polenta, messe nel treppiede, si rosolavano lentamente formando quella straordinaria crosta protettrice che, scricchiolando sotto i denti, fa gustare tutta la morbidezza della polpa che ha custodito. Sul tagliere affettai la pancetta. Polenta e pancetta era una colazione che aveva fortificato lo stomaco premendolo contro un'asse da bucato o avrebbe, immediatamente dopo, arato un campo con le mani e il petto calcato sull'aratro, gridando alla lentezza dei buoi.
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Misi un'altra corona di fette di polenta nel treppiede. La Cecina, con un sorprendente appetito, rivoltolava fra il pollice e l'indice il boccone di polenta per ammorbidire la crosta e farla un poco raffreddare. la pancetta, tenuta coll'altro pollice sulla fetta calda, scioglieva dolcemente il lardo ungendo mani e bocca di trasparenze
-Questo è un mangiare! Da beati del paradiso - disse la Cecina.
Il Regno di Dio doveva essere una tavola mattutina preparata con fette di polenta riscaldata e pancetta stagionata.
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