NELSON MANDELA. LUNGO CAMMINO VERSO LA LIBERTA’
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Oratore principale della giornata era il capo Meligqili,
figlio di Dalindyebo, e dopo averlo ascoltato i miei fulgidi sogni divennero
immediatamente più cupi. Meligqili cominciò nel modo convenzionale, dicendo che
era bello trovarsi riuniti per continuare una tradizione che esisteva da tempo
immemorabile. Poi si voltò verso di noi, e il suo tono cambiò bruscamente: “Qui,
“ disse, “siedono i nostri figli: giovani, sani, belli, il fiore della tribù
xhosa, l’orgoglio della nostra nazione. Da poco li abbiamo circoncisi, con un
rito che promette di introdurli nel mondo degli uomini; io sono qi a dirvi che
questa è una promessa vuota, vana, una promessa che non potrà mai essere
mantenuta. Perché noi xhosa, e tutti i sudafricani neri, siamo un popolo
conquistato. Noi siamo schiavi nel nostro paese, siamo inquilini sul nostro
suolo. Non abbiamo la forza, non abbiamo il potere, non abbiamo il controllo
del nostro destino nella terra sulla quale siamo nati. Questi figli andranno
nelle città, a vivere nelle baracche e a bere alcool di qualità scadente, perché
noi non possiamo offrire loro una terra sulla quale vivere e prosperare.
Sputeranno i polmoni nelle viscere delle miniere dei bianchi, si distruggeranno
la salute, rinunceranno a vedere il sole per garantire ai bianchi una vita di
prosperità senza pari. Tra questi giovani ci sono capi che non governeranno mai
perché non abbiamo il diritto di governarci, soldati che non combatteranno mai perché
non abbiamo armi con cui combattere; docenti che non insegneranno mai perché non
abbiamo luoghi dove farli studiare. Le capacità, l’intelligenza, il potenziale
di questi giovani andranno sperperati nello sforzo di guadagnarsi da vivere
svolgendo i servizi più umili, più semplici, per i bianchi. I doni che abbiamo
offerto oggi non sono niente se non possiamo offrire il dono più grande, che è
l’indipendenza, la libertà. So bene che Qamata vede tutto e non dorme mail, ma
sospetto che da qualche tempo si sia un po’ appisolato. Se è così spero di
morire presto, almeno potrò andare a riscuoterlo, a dirgli che i figli di
Ngubencguka, il fiore della nazione xhosa, stanno morendo”
Mentre il capo Meligqili parlava, il pubblico si era fatto
sempre più silenzioso e, mi pareva, sempre più arrabbiato. Nessuno voleva udire
le parole che egli aveva pronunciato quel giorno. So che nemmeno io volevo
udirle. Le sue osservazioni, più che stimolarmi mi avevano irritato, le
liquidavo come l’opinione sbagliata di un uomo ignorante incapace di apprezzare
il valore dell’istruzione e i benefici che i bianchi avevano portato al paese.
A quel tempo, vedevo i bianchi non come oppressori ma come benefattori e
pensavo che il capo Meligqili fosse di un’ingratitudine estrema. Quell’uscita
stava rovinando la mia festa, gustava la fierezza che provavo con osservazioni fuori
luogo.
Ma senza che ne comprendessi pienamente il motivo, presto le
sue parole incominciarono a scavarmi dentro. Un seme era stato piantato, e dopo
esser rimasto in riposo per una lunga stazione, infine cominciò a germogliare.
In seguito capii che quel giorno l’ignorante ero io, non il capo.
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